QUARTO
PERIODO 1860 - 1870
CAMPAGNA
DI ASPROMONTE
Una pianta vale in ragione del suo frutto, e così l’individuo
vale secondo le cose buone che può dare ai propri simili: nascere,
vivere, mangiare, bere, e poi morire, sono prerogativa anche degli insetti.
In un periodo come quello del 1860, nell’Italia meridionale un uomo
vive, e vive una vita utile per le masse: questa è la vera vita
dell’anima!
"Lasciate fare a chi ne ha il compito" dicevano generalmente
coloro che, col muso nella greppia dell’erario pubblico, erano pronti
a non fare nulla, o a far male; in conseguenza di questa teoria la monarchia
sabauda per tre volte diede il veto alla spedizione dei Mille: prima non
voleva che si partisse per la Sicilia, poi che si attraversasse lo stretto,
e infine che si passasse il Volturno. Si partì per la Sicilia,
si attraversò lo stretto, si passò il Volturno, e non per
questo le cose in Italia andarono peggio.
"Dovevate proclamare la repubblica!" gridarono i mazziniani,
e lo gridano anche oggi, come se questi professori, abituati a riformare
il mondo dal fondo delle loro scrivanie, potessero conoscere la situazione
morale e materiale dei popoli meglio di noi che abbiamo avuto la fortuna
di guidarli alla vittoria.
Che le monarchie, come i preti, dimostrino ogni giorno di più che
non ci si può aspettare da loro niente di buono, è cosa
evidente, ma che si dovesse proclamare la repubblica, da Palermo a Napoli,
è falso! Coloro che affermano il contrario lo fanno per quell’odio
di parte che hanno manifestato dal ‘48 in poi, in ogni occasione,
e non perché siano convinti di quanto sostengono.
Avemmo il veto della monarchia nel 1860, e lo avemmo nel 1862. Rovesciare
il papato credo che valesse tanto quanto rovesciare il Borbone, e forse
qualcosa di più: e nel 1862 ciò che si proponevano le solite
camicie rosse era di abbattere quello che incontestabilmente era il più
fiero ed accanito nemico dell’Italia, e conquistare la nostra capitale
naturale, senz’altra meta, senz’altra ambizione che quelle
di fare il bene della patria. La missione era sacra, le condizioni erano
le stesse, e la generosa Sicilia, tranne alcuni che già stavano
comodamente seduti alla tavola da noi preparata nel 1860, rispondeva col
consueto slancio, al grido di "Roma o morte!" da noi lanciato
a Marsala. E qui giova ripetere ciò che dissi un’altra volta:
"Se l’Italia avesse avuto due Palermo, avremmo potuto raggiungere
Roma indisturbati."
Il vecchio martire dello Spielberg, Pallavicino, governava a Palermo,
e mi ripugnava davvero creare qualche difficoltà a quel mio vecchio
amico, però ero convinto che fosse sbagliato "Lasciar
fare a chi ne ha il compito", essendo certo che non si tentava
di fare nulla, se non da parte di chi non voleva restare una pianta inutile.
Quindi: il grido "Roma o morte!" a Marsala, seguito dalla raccolta
dei miei prodi a Ficuzza, una tenuta a poche miglia da Palermo, dove si
riuniva un gruppo scelto di giovani palermitani e di altre province.
Corrao, il valoroso compagno di Rosolino Pilo, ed altre brave persone
procuravano le armi; Bagnasco, Capello ed altri illustri patrioti formavano
un comitato di approvvigionamento; così coi miei inseparabili fratelli
d’armi del continente, Nullo, Missori, Cairoli, Manci, Piccinini,
ecc., in breve scesero in campo nuovi Mille, come i primi disposti ad
affrontare la tirannide clericale, certamente assai più nociva
di quella borbonica.
Ma per la monarchia avevamo la colpa di dieci vittorie e l’affronto
di aver ingrossato i suoi appannaggi, tutte cose che i re non perdonano.
Gran parte di quelli che ora, ben sistemati e soddisfatti, vociferano
con entusiasmo sull’unificazione del ‘60, allora o biasimavano
la nostra impresa o si tenevano in disparte per non appestarsi a contatto
coi rivoluzionari, incontentabili ed irrequieti.
Comunque, grazie alla decisa volontà di Palermo ed alle forti simpatie
di tutta la Sicilia, potemmo percorrere l’isola fino a Catania senza
ostacoli seri; la popolazione di quella città non fu da meno ed
il suo consenso trattenne chi certamente voleva bloccarci.
Due piroscafi, uno francese e l’altro della compagnia Florio, capitati
nel porto di Catania, fornirono il mezzo di trasporto verso il continente.
Alcune fregate della marina militare italiana incrociavano davanti al
porto e avrebbero potuto impedire l’imbarco ed il passaggio: esse
ne avevano certo l’ordine, ma, sia detto a vanto di chi le comandava,
non fecero alcun atto ostile, ed io invio un plauso a quei comandanti;
e credendo di conoscere anch’io l’onore militare dirò
in coscienza che in casi simili un uomo d’onore deve fare a pezzi
la propria sciabola.
Il modo in cui attraversammo lo stretto di Messina fu molto pericoloso,
per essere le navi stracariche di gente, a dispetto del fatto che molti
soldati non riuscirono ad imbarcarsi per mancanza di spazio: nella mia
vita di marinaio avevo già visto bastimenti molto carichi, mai,
però, come in quell’occasione. Dato che la maggior parte
dei soldati erano nuovi, non ancora presi in carico nelle compagnie, e
quindi sconosciuti agli ufficiali, essi si affollarono talmente a bordo
da sommergere i piroscafi: era inutile pregarli di sbarcare, neanche per
sogno, e si correva un enorme pericolo, forse mortale.
A lungo fui in dubbio se partire in quelle condizioni: che perplessità,
che responsabilità avevo! Dalla mia decisione dipendeva chissà
cosa per il mio paese. Che ordini dovevo dare mentre chiunque si trovava
a bordo non poteva muoversi e neanche girarsi? Calava la notte e bisognava
decidersi se partire o restare lì, pigiati come sardine, in una
posizione insostenibile, aspettando che il giorno illuminasse un fiasco.
Ci mettemmo in moto, e la fortuna, anche stavolta, fu dalla parte del
diritto e della giustizia, perché il vento ed il mare furono appropriati
alla condizione delle navi: come durante la prima traversata del ‘60,
al Faro c’era solo un po’ di vento, e fortunatamente mare
calmo. Verso l’alba, dopo aver felicemente attraversato lo stretto,
approdammo alla spiaggia di Melito, dove tutti sbarcarono.
Come nel ‘60 prendemmo la strada del litorale verso il capo dell’Arma,
in direzione di Reggio. Allora avevamo come avversari i borbonici, che
cercavamo per attaccarli, oggi davanti a noi c’era l’esercito
italiano, che volevamo evitare ad ogni costo, ma che ad ogni costo ci
cercava per annientarci.
Le prime ostilità nei nostri confronti giunsero da una corazzata
italiana che, costeggiando il litorale parallelamente alla nostra direzione
di marcia, ci regalò alcuni tiri di moschetteria costringendoci
a mandare gli uomini verso l’interno per metterli al coperto. Alcuni
distaccamenti inviati da Reggio attaccarono alcuni dei nostri che marciavano
in avanscoperta: invano gli si disse che non volevamo combattere, la loro
intimazione era di arrenderci, e dato che naturalmente non volevamo l’unica
era sfuggire alle loro fucilate fratricide.
Stando così le cose, e per evitare inutili spargimenti di sangue,
ordinai di deviare verso destra e di prendere la strada dell’Aspromonte:
l’ostilità dell’esercito italiano verso di noi ebbe
come inevitabile conseguenza di spaventare la popolazione e di renderci
assai difficili gli approvvigionamenti; i miei poveri volontari mancavano
di ogni cosa, anche di ciò che era più necessario, il cibo,
e quando per caso incontravamo qualche pastore col suo gregge questi non
voleva trattare con noi, peggio che fossimo stati briganti.
Insomma, eravamo trattati come scomunicati e fuorilegge: i preti e i reazionari
non ebbero molte difficoltà a convincere quella gente, buona ma
ignorante. Però eravamo gli stessi del ‘60 e il nostro scopo
era nobile come quello di un tempo; certo eravamo meno favoriti dalla
fortuna e non era la prima volta che vidi le popolazioni italiane inerti
e indifferenti verso chi voleva liberarle. Non così la Sicilia,
devo ammetterlo, e quella gente nel ‘62 fu generosa con noi come
due anni prima: ci diede la meglio gioventù e, fra i veterani,
il vecchio barone Avizzani, di Castrogiovanni, che sopportò come
un giovanotto le privazioni e i disagi della campagna. E furono davvero
molti i disagi e le privazioni! Ho sofferto la fame e m’immagino
che molti dei miei compagni ne soffrirono più di me.
Finalmente, dopo marce disastrose lungo sentieri impraticabili, l’alba
del 29 agosto 1862 ci vide sull’altipiano dell’Aspromonte,
stanchi e affamati. Raccogliemmo alcune patate non ancora mature e le
mangiammo, prima crude, poi, passata la frenesia, dopo averle arrostite.
E qui devo rendere giustizia ai bravi montanari di quella parte della
Calabria: non si mostrarono subito, a causa dei sentieri impervi, ma nel
pomeriggio si fecero vivi con abbondanti provviste di frutta, pane e altro;
l’imminente catastrofe, però, ci diede poco tempo per approfittare
di tanta generosità.
A est, ad alcune miglia di distanza, verso le tre del pomeriggio avvistammo
la testa della colonna Pallavicini, incaricata di attaccarci: giudicando
troppo debole la posizione dove avevamo riposato, allo scoperto e facilmente
accerchiabile, ordinai di spostare il campo in montagna; arrivammo al
limitare della bellissima foresta di pini che corona l’Aspromonte
e ci accampammo dandole le spalle, con di fronte i nostri avversari.
Davvero nel ‘60 corremmo il rischio di essere attaccati dall’esercito
sardo, e ci volle molto amore verso il proprio paese per non entrare in
uno scontro fratricida; nel ‘62, però, l’esercito italiano,
che era più forte mentre noi eravamo molto più deboli, era
deciso a sterminarci e ci assalì duramente, come se fossimo briganti,
e forse anche più volentieri; quando arrivarono ci caricarono con
una sicurezza sorprendente e gli ordini erano chiari: massacro, e dato
che potevano esserci esitazioni tra i figli della stessa patria, l’ordine
fu certamente di non dare il tempo di riflettere. Arrivato a tiro, il
corpo Pallavicini formò le sue linee, avanzò risolutamente
verso di noi e cominciò col solito fuoco avanzato, sistema adottato
anche dai borbonici e che ho già descritto come inadeguato.
Noi non rispondemmo. Che terribile momento per me! Ero di fronte al dilemma
se deporre le armi, vigliaccamente, o se sporcarmi di sangue fraterno!
Un simile scrupolo non lo ebbero di certo i soldati della monarchia, o
meglio, i comandanti di quei soldati: che contassero sul mio orrore per
la guerra civile? Probabile, e infatti marciavano su di noi con una tranquillità
che lo lasciava supporre.
Ordinai di non fare fuoco e fui obbedito, tranne che da un gruppetto di
giovani ardenti alla nostra destra, comandati da Menotti, che vedendosi
caricati sfacciatamente, caricarono a loro volta e respinsero gli avversari.
La nostra posizione, in alto, con alle spalle il bosco, era di quelle
da poter tenere in dieci contro cento, ma a cosa serviva, se non ci difendevamo
gli attaccanti ci avrebbero certo raggiunto in fretta. E siccome quasi
sempre succede che gli assalitori sono tanto più sicuri di sé
quanto minore è la resistenza dell’avversario, i bersaglieri
che ci coprivano infittivano maledettamente i loro tiri, ed io, che mi
trovavo fra le due linee per evitare la strage, ebbi in regalo due palle
di carabina, una all’anca sinistra e l’altra al malleolo del
piede destro.
Contemporaneamente fu ferito anche Menotti. Avendo ordine di non sparare,
quasi tutta la nostra gente si ritirò nella foresta, e rimasero
con me tutti i miei prodi ufficiali, fra i quali tre ottimi chirurghi,
Ripari, Basile ed Albanese, alle cui cure premurose devo certamente la
vita.
Mi disgusta raccontare certe miserie, ma in quella circostanza furono
così numerose quelle manifestate dai miei contemporanei da nauseare
anche i frequentatori di cloache! Ci fu chi si fregò le mani alla
lieta notizia delle mie ferite, ritenute mortali; ci fu chi rinnegò
l’amicizia con me e chi disse di essersi ingannato nell’aver
apprezzato qualche mio merito.
Però, a onore del genere umano, devo confessare che vi furono anche
le brave persone che ebbero cura di me come fossero mia madre, che mi
custodirono con cure davvero amorevoli, filiali: tra i primi devo ricordare
il mio caro Cencio Cattabene, tolto prematuramente all’Italia; la
monarchia sabauda aveva ottenuto la grande preda, e l’aveva ottenuta
come voleva, cioè in uno stato tale che il diavolo probabilmente
se la sarebbe portata via.
Si usarono proprio quei metodi volgari che abitualmente si usano nei confronti
dei peggiori delinquenti portandoli al patibolo: per esempio, invece di
lasciarmi all’ospedale di Reggio o di Messina, fui imbarcato su
una fregata e condotto al forte di Varignano, facendomi attraversare tutto
il Tirreno con enormi sofferenze per il mio piede, dato che la ferita
era, se non letale, certo fra le più dolorose. Ma la preda la si
voleva vicina, e al sicuro. Ripeto: mi ripugna narrare queste miserie
e mi da fastidio tediare chi ha la pazienza di leggermi con ferite, ospedali,
prigioni e carezze di regi avvoltoi.
Fui dunque condotto al Varignano, a La Spezia, a Pisa e quindi a Caprera.
Molte furono le sofferenze, e molte le cure gentili dei miei amici: al
decano dei chirurghi italiani toccò l’onore di estrarre il
proiettile. Finalmente, dopo tredici mesi, la ferita al piede si cicatrizzò
e fino al ‘66 condussi una vita inerte e inutile.
CAMPAGNA
DEL TIROLO
Erano
passati all’incirca quattro anni dal giorno in cui fui fucilato
sull’Aspromonte. Dimentico in fretta le ingiurie e così la
pensarono gli opportunisti, che usano come bussola più l’utilità
dei mezzi che la loro moralità
Già da giorni si mormorava di un’alleanza con la Prussia
contro l’Austria, ed il 10 giugno 1866 arrivò a Caprera il
mio amico generale Fabrizi invitandomi, a nome del governo e dei nostri,
a prendere il comando dei volontari che in ogni parte d’Italia si
raccoglievano numerosi. Il giorno stesso partimmo in piroscafo per il
continente e andammo subito a Como dove aveva luogo il maggior concentramento
di volontari: erano davvero molti, la solita bella e focosa gioventù
sempre pronta a combattere per l’Italia senza chiedere compensi,
e con essi brillavano i coraggiosi veterani di cento battaglie.
Comunque non c’erano cannoni: i volontari potevano farne a meno;
i soliti catenacci, e non le buone carabine di cui era fornito l’esercito;
miserabile tirchieria nel vestiario, ecc., per cui molti soldati andarono
in battaglia vestiti da borghesi: insomma, le solite miserie a cui le
cariatidi della monarchia avevano abituato i volontari.
Gli auspici sotto i quali iniziava la campagna del ‘66 promettevano
all’Italia un risultato brillante, ma l’esito fu meschino,
vergognoso!
Il pessimo sistema con cui si governa questo paese è che il denaro
pubblico serve a corrompere quella parte della nazione che dovrebbe essere
incorruttibile, cioè gli uomini del parlamento, i militari e i
vari funzionari pubblici, tutta gente che, sfortunatamente, con poca fatica
si inginocchia ai piedi del Dio Ventre.
La corruzione portata da Bonaparte [...] si diffuse in questo nostro povero
paese, condannato a scimmiottare i propri vicini. [...]
Per un momento fummo sottratti all’ignominioso protettorato di Bonaparte
e, non sapendo mai fare da soli, ci gettammo in un’altra alleanza,
se non altro meno sgradevole, e che ci servì al di sopra dei nostri
meriti.
Comunque sia la campagna del ‘66 iniziava con prospettive promettenti:
la nazione, benché stremata da un governo di predoni, si mostrava
ricca di entusiasmo e pronta a tutti i sacrifici; la forte flotta doveva
misurarsi con un nemico più debole e che si poteva dare per vinto;
e il nostro esercito, grande quasi il doppio di quello austriaco in Italia,
per la prima volta vedeva sotto le sue bandiere tutti i figli della penisola,
dal Lilibeo al Cenisio, ansiosi di battersi contro il secolare nemico
e che solo l’incapacità e la boriosa ignoranza di chi lo
comandava poteva condurre a Custoza. I volontari, che arrivavano a centomila,
per le solite paure furono limitati a un terzo e trattati come di consueto
in fatto di armamento, vestiario, ecc., e quando avvenne la catastrofe
di Custoza solo poche migliaia di loro si trovavano a Salò, Lonato
e sul lago di Garda, dato che i loro reggimenti erano ancora nell’Italia
meridionale ad aspettare scarpe e armi.
Malgrado tanti ostacoli, tutto prometteva una campagna brillante, che
avrebbe portato la nostra nazione tra le prime d’Europa e ringiovanito
questa vecchia matrona riportandola ai tempi antichi di Roma. Ma non fu
così: guidata dal gesuitismo in divisa essa fu trascinata in una
cloaca di umiliazioni!
Sotto la spinta dell’opinione pubblica, ma sempre ostile ai volontari
che teme e di cui diffida perché sono i rappresentanti dei diritti
e della libertà, il governo li arma, ma fornisce loro un’organizzazione
che risente dell’antipatia e della malevolenza con cui li aveva
accolti: e così li spinge verso la frontiera dove fra due giorni
avrebbe infuriato la battaglia! La fretta con cui furono accelerate le
operazioni militari e gli eventi che immediatamente seguirono favorirono
il concentramento dei volontari, anche se - le solite corbellerie gesuitiche
- era intenzione delle alte sfere di non mettere troppi volontari tutti
insieme, ma di dividerli in due lasciandone la metà nell’Italia
meridionale, con vari pretesti diffusi per mascherare la magagna.
Qui devo fare giustizia al re: sin dai primi momenti in cui mi venne comunicata
la sua intenzione di affidarmi il comando dei volontari, tramite il dottor
Albanese egli mi comunicò l’idea di farci sbarcare sulle
coste dalmate in accordo con l’ammiraglio Persano, ma venni a sapere
che tale proposito fu assolutamente contrastato dai generali, e in particolare
da La Marmora: l’idea di spingerci verso l’Adriatico mi piacque
a tal punto che feci trasmettere a Vittorio Emanuele i miei complimenti
per un progetto così efficace e grandioso. Un progetto troppo bello
per riuscire ad entrare in certi cervelli del Consiglio aulico italiano
e ben presto mi persuasi che il trattenere a sud cinque reggimenti di
volontari non era altro che diffidenza, volendo toglierli dal mio comando
e fare ciò che si era fatto nel ‘59 col reggimento degli
Appennini.
Come campo d’azione mi fu dunque assegnato il lago di Garda, contrariamente
alle prime proposte fattemi in cui si diceva di lasciarmi libero nella
scelta delle operazioni. Che magnifico orizzonte si presentava per noi
a oriente! Sulle coste dalmate, con trentamila uomini, c’era proprio
da sconvolgere la monarchia austriaca; quanti amici avremmo trovato in
quella parte dell’Europa orientale, dalla Grecia all’Ungheria:
tutte popolazioni bellicose nemiche dell’Austria e della Turchia
e che avevano bisogno solo di una piccola spinta per sollevarsi contro
i dominatori. Avremmo certamente impegnato il nemico costringendolo ad
inviare un potente esercito contro di noi, diminuendo le sue armate a
ovest e a nord, oppure avremmo potuto andare all’interno e gettare
il tizzone della rivolta alle dieci nazionalità che compongono
quel corpo eterogeneo e mostruoso.
Dovendo operare sul lago di Garda chiesi e ottenni di avere ai miei ordini
la flottiglia di Salò, ma se si osserva il misero stato in cui
si trovava quella flottiglia si vedrà facilmente come essa fu solo
di imbarazzo, e fonte di fastidi per riuscire a salvarla dalla flottiglia
nemica, più numerosa e meglio organizzata: i volontari dovettero
fornire la maggior parte degli addetti, soprattutto marinai, per equipaggiare
la flottiglia e difendere il litorale per darle protezione, in particolare
dopo la triste giornata di Custoza e la ritirata del nostro esercito.
Un intero reggimento dovette rimanere a Salò col solo scopo di
proteggere quel porto, la costa contigua e le fortificazioni che si eressero;
anche il generale Avezzana, con un adeguato numero di ufficiali e un forte
distaccamento di marinai volontari venuti da Ancona, Livorno e altre città
di mare, dovette restare lì col medesimo compito.
Sul Garda la flottiglia austriaca contava otto piroscafi da guerra armati
di quarantotto cannoni, con equipaggi adeguati e forniti di tutto; al
mio arrivo quella italiana non aveva pronta che una sola cannoniera con
un pezzo: delle altre cinque, a vapore e con lo stesso armamento, una
era a terra, inutilizzabile, e quattro non avevano le macchine in ordine.
È vero che si lavorò subito per metterle in condizione di
muoversi, ma solo alla fine della guerra furono pronte cinque cannoniere,
con un cannone da 24 ciascuna, per un totale di cinque cannoni mentre
il nemico ne aveva 48 di calibro maggiore. Si lavorò pure alla
costruzione e all’armamento di zattere, che avrebbero potuto essere
molto utili, ma la mancanza del necessario e la lentezza del lavoro fecero
sì che non si arrivò mai ad averne una sola pronta a navigare
sul lago.
[...]
COMBATTIMENTO
DI BEZZECCA
Il nemico, inorgoglito dai suoi primi successi, avanzò con un’audacia
a cui non eravamo abituati e poi cacciò i nostri da tutta la valle
di Conzei: inutilmente si era collocata una batteria da 8 davanti a Bezzecca,
che a lungo tenne gli austriaci sotto tiro; invano i nostri ufficiali,
alla testa dei volontari, pagando di persona si precipitarono alla carica;
invano! Fino a Bezzecca tutte le nostre posizioni furono prese dal nemico,
che non solo occupò il paese ma si spinse oltre e piazzò
un distaccamento alla nostra destra, a sud della Val di Ledro, per attaccarci
di fianco.
All’alba ero partito da Storo in carrozza, essendo ancora aperta
la mia ferita del 13 giugno, e dalle notizie ricevute non mi aspettavo
di trovare la mia gente impegnata in un così duro scontro; lasciando
Storo, però, avevo dato ordine che davanti a me avanzassero il
7° reggimento ed il 1° bersaglieri: giunto nelle vicinanze di
Bezzecca, il rumore dei cannoni e delle fucilate mi segnalò la
battaglia, feci chiamare il generale Haug per avere dei ragguagli e capii
che si trattava di un affare serio. Entrambi convenimmo di far occupare
le alture di sinistra coi battaglioni del 9° reggimento che cominciavano
ad arrivare: e furono provvidenziali, perché la salvezza della
giornata furono innanzi tutto le posizioni occupate dai coraggiosi di
quel reggimento comandati, e lo dico con vero orgoglio, da mio figlio
Menotti; i due battaglioni del 9° erano comandati da Cossovich e da
Vigo Pellizzari, tutti e due dei Mille e ben degni di esserlo.
Al centro e a destra i volontari arretravano, e così pure la batteria,
facendo fuoco mentre si ritirava e comportandosi valorosamente; i suoi
cavalli morirono tutti, ed anche i serventi, tranne uno: costui, dopo
aver lanciato contro il nemico l’ultimo proiettile, montò
a cavalcioni del suo pezzo con grande sangue freddo, come se si fosse
trovato su un campo di manovra.
Nel frattempo il maggiore Dogliotti mi avvisò che aveva disponibile
una batteria di riserva: "Avanti!" gridai, e quella brava gente
in pochi minuti giunse al galoppo, girò verso destra, collocò
i suoi pezzi su un leggero pendio e cominciò a sparare sul nemico
con tiri così rapidi che sembravano colpi di fucileria più
che di cannone; a questi sei pezzi se ne aggiunsero altri tre, e così
si formò un insieme di nove bocche da fuoco formidabili.
Tutti gli ufficiali del mio quartier generale e chiunque mi capitasse
a portata di voce ebbero ordine di raccogliere uomini e spingerli in avanti:
Canzio, Ricciotti, Cariolatti, Damiani, Ravini ed altri si precipitarono
alla testa di un nucleo di valorosi, e coadiuvati sulla sinistra dal coraggioso
9° misero in fuga il nemico, già sconvolto dal fuoco dei cannoni,
oltre Bezzecca e i villaggi vicini. Gli austriaci non ressero e si diedero
a una ritirata completa, abbandonando tutte le posizioni conquistate fino
in cima alla valle di Conzei e sui monti a est.
Anche questa battaglia ci costò un gran numero di morti: tra i
primi cadde l’eroico colonnello Chiassi. [...]
Non racconterò degli scontri parziali avvenuti sulle montagne,
e ve ne furono di molto importanti a cui di certo non ho potuto assistere:
dirò solo che il 21 agosto il nemico, per mascherare l’avanzata
su Bezzecca, aveva impiegato una forza rispettabile in una diversione
su Condino, dove il prode generale Fabrizi, Capo di Stato Maggiore, riuscì
a respingerlo con le brigate Nicotera e Corte e con alcuni pezzi di artiglieria.
Anche a Molina, verso il lago di Garda, vi furono vari scontri in due
occasioni, ed alcune compagnie del 2° reggimento si batterono coraggiosamente.
Dopo il 21 il nemico non comparve più, ed avendo mandato il colonnello
Missori con le sue guide verso Condino, in esplorazione, venni a sapere
che tutta la vallata era libera fino ai forti di Lardaro: decidere di
muoversi, come facemmo, per la valle Giudicaria aveva come scopo riunirsi
con la colonna Cadolini, che, lasciata la Val Camonica, si dirigeva verso
di noi per le valli di Fumo e di Daone. Contemporaneamente alle battaglie
di Bezzecca e di Condino si combatteva sulle montagne alla nostra sinistra,
dove il maggiore Erba, credo con un distaccamento del 1° reggimento,
aveva retto l’urto di una forza nemica superiore: e questo dimostrava
che avevamo di fronte un grande numero di austriaci.
Dato che la valle Giudicaria era libera, il ricongiungimento con Cadolini
fu facile, e, avvistati i forti di Lardaro, decisi di deviare a destra,
verso Riva ed Arco, e diedi gli ordini per rinforzare il generale Haug,
incaricato di dirigere le operazioni in quel settore. Ma l’ordine
del 25 agosto, di sospendere le ostilità, ci colpì all’inizio
di quella manovra. La campagna del ‘66 è talmente impregnata
di fatti sciagurati che non si sa se si debba imprecare contro il destino
o contro l’incapacità di chi comandava.
Fatto sta che dopo aver sofferto così tanto, e aver versato sangue
prezioso, per arrivare a controllare le valli del Tirolo, al momento di
raccogliere i frutti di tali fatiche fummo bloccati nella nostra marcia
vittoriosa: non si consideri esagerata questa affermazione, perché
il 25 agosto, quando ci fu ordinato di interrompere le ostilità,
non c’erano più austriaci fino a Trento, il nemico aveva
lasciato Riva gettando nel lago i cannoni della fortezza, e per due giorni
non si riuscì a trovare il generale austriaco al quale occorreva
notificare l’armistizio; il nostro 9° reggimento scendeva giù
dai monti, alle spalle dei forti di Lardaro, naturalmente senza alcun
ostacolo dato che la guarnigione di quei forti consisteva in meno di una
compagnia; infine il generale Kühn, comandante supremo delle forze
austriache in Tirolo, in un comunicato annunciava che, non potendo difendere
il Tirolo italiano, ripiegava a difesa del Tirolo tedesco.
Quel giorno il generale Medici, dopo le sue brillanti imprese in Val Sugana,
si trovava a pochi chilometri da Trento, mentre il generale Cosenz lo
seguiva con la sua divisione, e senza dubbio in due giorni potevamo riunirci
nella capitale del Tirolo con cinquantamila uomini: pieni di entusiasmo
per le vittorie ottenute e rinforzati dalle numerose bande che già
si formavano in Cadore e in Friuli, cosa non avremmo potuto tentare! Invece
sono qui a insudiciare carta perché le prossime generazioni conoscano
le nostre miserie. Un ordine del comando supremo dell’esercito intimava
la ritirata e lo sgombero del Tirolo: risposi "Obbedisco",
parola che poi servì alle solite polemiche della mazzineria che
come sempre voleva che io proclamassi la repubblica, marciando su Vienna
o su Firenze.
In tutta la campagna del ‘66 fui aiutato molto dai miei ufficiali,
dato che ero costretto a muovermi in carrozza e non potevo quindi seguire
tutti le operazioni. [...] E anche in questa occasione tante buone carabine
ci arrivarono a guerra finita. E non dico oltre.
Dal Tirolo ci ritirammo a Brescia, dove il Corpo dei Volontari si sciolse.
Poi mi ritirai a Caprera.
P.S. Desidero ricordare con gratitudine il colonnello Chambers, inglese,
che fu mio aiutante.
[...]
MENTANA
- 3 NOVEMBRE 1867
Il 31 ottobre tutto il contingente di volontari era rientrato a Monterotondo
e vi rimase fino al 3 novembre: quel periodo fu impiegato a rivestire
i soldati che ne avevano maggiormente bisogno, a trovargli delle scarpe,
ad armarli e a riorganizzarli come si poteva.
Tre battaglioni comandati dal colonnello Paggi, occuparono le forti posizioni
di S. Angelo, Monticelli e Palombara, mentre Tivoli fu occupata dal colonnello
Pianciani, con un battaglione; il generale Acerbi teneva Viterbo con un
migliaio di uomini, il generale Nicotera Velletri, con un altro migliaio,
ed il maggiore Andreuzzi operava sulla riva destra del Tevere con duecento
uomini. Prima del 31 molti volontari erano accorsi ad ingrossare le colonne
comandate da Menotti, di modo che queste arrivavano a circa seimila uomini:
la situazione dei corpi volontari, quindi, se non era brillante non sarebbe
stata neanche drammatica, se con l’aiuto dell’Italia avessimo
potuto completare l’armamento, il vestiario e il resto dell’equipaggiamento
necessario ai nostri poveri soldati.
L’esercito papalino era demoralizzato: una parte l’avevamo
battuta a Monterotondo e il resto si era concentrato a Roma, da dove non
osava uscire; il popolo romano, oppresso, massacrato nei suoi tentativi
insurrezionali, gridava vendetta e, guidato da Cucchi ed altri prodi,
con rinnovato coraggio si preparava a collaborare coi suoi liberatori
che operavano all’esterno della città per farla finita coi
preti e coi mercenari. Tutto lasciava sperare nella rovina del clero,
nemico del genere umano.
Ma il genio del male vegliava ancora sulla salvezza del suo principale
sostegno, il pontefice della menzogna! Dalle sponde della Senna, dove
egli regna per la disgrazia della Francia e del mondo, incombeva sull’Arno,
accusava di codardia i conigli italiani e dava forza alla paura reazionaria
ed alla malafede: fedeli alla voce del padrone, gli uomini che indegnamente
governano l’Italia si coprivano il volto con la solita maschera
del patriottismo, ingannavano la nazione ed entrando nel territorio romano
dicevano: "Eccoci, abbiamo mantenuto la parola: alle prime fucilate
di Roma corriamo in aiuto ai fratelli!"
Menzogna! Menzogna! Voi accorreste di fronte alla strage dei vostri fratelli,
nel caso essi avessero conquistato la vittoria finale, accorreste quando
eravate sicuri che i patrioti di Roma erano schiacciati, morti!
Menzogna! Menzogna! Voi ed il vostro generoso alleato occupaste Roma ed
il suo territorio per lasciare l’esercito dei mercenari del papa
libero, integro, in grado di riprendersi dalle proprie sconfitte e di
far pesare tutta la propria forza e superiorità su un pugno di
volontari, pessimamente armati e privi del minimo necessario. E se l’esercito
papalino non era sufficiente, come non lo fu, ecco lì i soldati
di Bonaparte e, mi fa orrore il solo pensarlo, anche quei soldati che
hanno la disgrazia di essere ai vostri ordini!
Nel ‘60 non si marciava forse contro di noi per combatterci? E allora
perché non si poteva fare altrettanto nel ‘67?
Le colline di Mentana furono ricoperte dei cadaveri dei prodi figli d’Italia
e dei mercenari stranieri, così come lo furono le colline di Capua
sette anni prima: e la causa per cui combattevano i soldati che avevo
l’onore di comandare era sacra nell’Italia meridionale quanto
quella che ci aveva spinto sotto le mura della vecchia capitale del mondo.
Qui, con dolore, devo rammentare un’altra delle cause della sventura
di Mentana. Ne ho già accennato: i mazziniani avevano avviato la
loro propaganda distruttiva da quando era iniziata la nostra ritirata
dal Casino dei Pazzi, con motivazioni false, senza alcuna ragione. Per
chi ha un po’ di buon senso è ben facile capire che la nostra
posizione sotto le mura di Roma non era sostenibile di fronte all’arrivo
dei francesi, data la composizione delle forze che comandavo, carenti
in tutto, senza artiglierie e cavalleria, inadeguate a fronteggiare una
seria sortita anche dei soli papalini, e nell’impossibilità
di mantenersi per due giorni anche in assenza di un attacco. Invece, padroni
di Monterotondo, che pure si trova in vista di Roma, potevamo sfruttare
al meglio i nostri modesti mezzi, su posizioni dominanti da cui eravamo
in grado di avvistare per tempo il nemico quando si fosse avvicinato.
Ma per i mazziniani tutto ciò era un pretesto, e non bastavano
l’opposizione sleale ed accanita del governo italiano, la potenza
del clero, l’intervento di Bonaparte: no, anche loro, come sempre,
dovevano arrivare a dare il calcio dell’asino a chi non aveva altra
aspirazione che la liberazione dei fratelli in schiavitù. "Noi
faremo meglio", mi dicevano nel ‘48, a Lugano, gli uomini
della setta mazziniana, oggi diventati uomini della monarchia, e quindi
vedete che è cominciata molto tempo fa la guerra che i mazziniani
mi hanno fatto in punta di spillo.
"Andiamo a casa a proclamare la repubblica e a far le barricate",
dicevano i miei soldati nell’Agro romano, nel 1867: e in realtà
era molto più comodo, per quei poveri ragazzi che mi accompagnavano,
tornarsene a casa piuttosto che restare con me in novembre, senza nemmeno
il necessario per coprirsi, privi di quasi tutto, con di fronte l’esercito
italiano, i papalini ed i francesi. Il risultato di queste manovre mazziniane
fu che dalla ritirata dal Casino a Mentana tremila giovani disertarono,
e lascio solo immaginare quanto pesava in una milizia di seimila uomini
la diserzione, motivata apertamente, della metà degli uomini, e
a che livello potevano trovarsi il morale e la fiducia di chi restava.
I danni causati da questi mazziniani furono immensi, e potrei anche dimenticarli
se fossero stati inflitti a me personalmente, ma lo furono alla causa
nazionale! E come posso dimenticarli, allora, come posso tacerli a quella
parte della nostra gioventù traviata da loro! Mazzini era certo
migliore dei suoi seguaci e in una sua lettera dell’11 febbraio
1870 così mi scriveva in merito ai fatti di Mentana: "Voi
sapete che non credevo nel successo ed ero convinto che fosse preferibile
concentrare tutte le forze su una rivolta a Roma piuttosto che fermarsi
nei territori della provincia: ma una volta che l’impresa fu iniziata
feci quel che potei." Non dubito della sincerità dell’affermazione
di Mazzini, ma il danno era fatto: o egli non fece a tempo ad avvisare
i suoi seguaci o questi vollero continuare nella loro iniziativa sbagliata.
In Inghilterra Ricciotti non riuscì a trovare gli aiuti su cui
si poteva sperare, perché fra quei nostri amici era stata fatta
circolare questa voce: "Perché rovesciare il papato per
sostituirlo con un governo ancora peggiore?" E, come ho detto,
nell’Agro romano queste voci diffondevano sconforto fra i soldati
e provocarono la diserzione di massa, diventando la causa principale della
sconfitta di Mentana.
Dall’alto della torre del palazzo Piombino, a Monterotondo, dove
passavo la maggior parte della giornata ad osservare Roma, le esercitazioni
dei giovani soldati nella pianura ed i vari movimenti nelle campagne,
vedevo la processione dei nostri che s’incamminavano verso il passo
di Correse andandosene a casa; ai compagni che me ne parlavano rispondevo:
"Oibò, questi non sono nostri che partono, saranno contadini
che vanno o vengono dal lavoro." Ma nel mio animo sentivo la
rabbia per quell’azione sbagliata e cercavo di nasconderla o di
limitarla, col solito comportamento da tenere nei momenti drammatici.
A causa del morale della gente appena descritto e dato che la frontiera
settentrionale era per noi completamente sbarrata dall’esercito
italiano, con la conseguenza che da quella parte non potevamo cercare
di procurarci nulla, dovevamo puntare in un’altra direzione per
sopravvivere ed aspettare gli eventi che dovevano finalmente sciogliere
la questione romana: perciò fu deciso di muoverci sulla sinistra,
verso Tivoli, per lasciarci alle spalle l’Appennino ed avvicinarci
alle province meridionali. La partenza fu stabilita per la mattina del
3 novembre, ma dovendo distribuire le calzature si perse tempo e non si
fu pronti a muovere che nel pomeriggio, con questo ordine di marcia: le
colonne agli ordini di Menotti marceranno con davanti, distanti fra i
mille e i duemila passi, un’avanguardia di bersaglieri; prima dell’avanguardia
muoveranno esploratori a piedi preceduti da guide a cavallo; su tutte
le strade da Roma, sulla nostra destra, si spingeranno dei fiancheggiatori
a piedi e a cavallo, il più possibile verso Roma; sulle alture
che dominano il paese si collocheranno delle vedette che possano avvisare
per tempo su ogni movimento del nemico; una retroguardia si occuperà
di spingere avanti i restii e non lascerà nessuno indietro; l’artiglieria
marcerà al centro delle colonne, mentre gli equipaggiamenti saranno
in coda alle rispettive colonne. Così, dunque, si partì
da Monterotondo in direzione di Tivoli.
Sfortunatamente, però, pare che i nostri pochi esploratori - e
ne avevamo davvero pochissimi - siano caduti nelle mani del nemico, così
i papalini, arrivando per la via Nomentana, quasi colsero di sorpresa
la nostra avanguardia e la impegnarono: passato il villaggio di Mentana
le fucilate mi avvisarono della presenza del nemico, e retrocedere in
quella situazione, già a contatto col nemico, equivaleva ad una
fuga, tanto che non c’era altra soluzione che accettare il combattimento,
occupando le forti posizioni che erano a portata di mano. Quindi ordinai
a Menotti, che era all’avanguardia, di occupare queste posizioni
e di tenerle, e poi feci proseguire il resto delle colonne, dispiegandole
a destra e a sinistra in appoggio alle prime, lasciando sulla destra alcune
compagnie come riserva.
La strada da Mentana a Monterotondo, la nostra linea di operazioni quel
giorno, è buona, ma bassa e incassata, perciò fui costretto
a cercare sulla destra una posizione adatta per collocare i due cannoni
presi al nemico il 25 ottobre: la manovra fu eseguita con molta difficoltà
a causa della mancanza di cavalli e di serventi pratici, e anche perché
il terreno era sconnesso e frastagliato di siepi e vigne. Intanto il combattimento
infuriava su tutta la linea: avevamo occupato posizioni che valevano quelle
del nemico, anzi migliori, tanto che esso per tutto il giorno non poté
mostrare l’artiglieria, e a lungo i nostri resistettero malgrado
l’immensa superiorità dell’avversario, in termini di
armamenti e di numero.
Tuttavia devo confessare che i volontari, demoralizzati com’erano
a causa delle numerose diserzioni, quel giorno non si dimostrarono degni
della propria fama: ottimi ufficiali ed un pugno di prodi che li seguivano
spargevano il loro sangue prezioso senza cedere un palmo di terreno, ma
la massa non era intrepida come al solito e cedeva delle favorevoli posizioni
senza opporre quella resistenza che mi sarei aspettato. Lo scontro iniziò
all’una e verso le tre progressivamente il nemico ci aveva ricacciati
mille metri indietro verso Mentana; a quell’ora i nostri pezzi poterono
essere collocati vantaggiosamente sulla destra e cominciarono a sparare
efficacemente sul nemico, mentre una carica alla baionetta su tutta la
linea e i tiri a bruciapelo dei nostri dalle finestre delle case di Mentana
avevano seminato il terreno di cadaveri papalini: eravamo vittoriosi,
il nemico fuggiva, riprendevamo le posizioni perdute e fino alle quattro
la vittoria sorrideva ai figli della libertà italiana, eravamo
padroni del campo.
Eppure, lo ripeto, un dannato scoraggiamento serpeggiava nelle nostre
fila: si era vittoriosi ma non si voleva completare la vittoria inseguendo
il nemico che aveva abbandonato il campo. Tra i volontari circolavano
voci su colonne francesi in arrivo e non c’era modo di scoprire
l’origine della diceria, che naturalmente proveniva dai nostri nemici,
preti o diavoli; si sapeva che l’esercito italiano era contro di
noi ed arrestava i nostri alla frontiera, intercettando qualunque rifornimento
o comunicazione: insomma, il governo, i preti ed i mazziniani erano riusciti
a gettare in mezzo a noi lo sconforto e non è da tutti resistere
all’avvilimento e compiere allo stesso risolutamente il proprio
dovere.
Verso le quattro la voce che una colonna di duemila francesi ci attaccava
in coda diede l’ultimo colpo ai volontari: era falsa, anche se il
corpo di spedizione di de Failly giungeva in aiuto ai soldati del papa
stremati. Vengono di nuovo abbandonate le posizioni riconquistate con
tanto coraggio ed una folla di fuggitivi si ammassa sullo stradale: inutilmente
la mia voce e quella di molti prodi ufficiali tenta di riportare ordine,
invano ci si sgola a gridare rimproveri, invano!, e tutti si avviano verso
Monterotondo lasciando un cannone che solo il giorno prima era ancora
in mano al nemico e abbandonando un pugno di valorosi che dalle case di
Mentana fanno strage di nemici.
Tutti sono coraggiosi quando gli avversari si ritirano, e naturalmente
così fu per i nostri nemici: quei papalini che erano scappati di
fronte a noi, ora, sostenuti dalle colonne francesi, avanzano sicuri di
sé, ci incalzano e con le loro armi migliori delle nostre ci causano
molte perdite fra morti e feriti: i francesi, sul momento da noi creduti
papalini, vengono avanti coi loro tremendi chassepots, grandinando
proiettili ma, fortunatamente, provocando più paura che morte.
Ah, se i nostri giovani, seguendo i miei incitamenti, avessero tenuto
le posizioni - e lo si poteva fare con poco rischio - limitandosi a difenderle,
forse il 3 novembre andrebbe annoverato tra le giornate gloriose della
democrazia italiana, pur con tutti i limiti e l’inferiorità
che avemmo a Mentana.
In molte delle battaglie precedenti eravamo perdenti fin quasi alla fine
della giornata e poi un vento favorevole ci aveva riportati sulla via
della vittoria: a Mentana, invece, eravamo padroni del campo alle quattro
del pomeriggio, dopo un’ora sarebbe scesa la notte e forse ciò
avrebbe consigliato al nemico di ritirarsi su Roma, dato che non sarebbe
stata facilmente tenibile una posizione esterna con avversari che di notte
non avrebbe dato loro tregua. Verso le cinque, tranne i pochi difensori
di Mentana asserragliati nelle case, tutte le nostre colonne erano in
ritirata disordinata verso Monterotondo, e si riuscì appena ad
occupare la forte posizione del convento dei cappuccini con alcune centinaia
di soldati: non c’erano più munizioni per i cannoni e ce
n’erano pochissime per i fucili, ed era generale l’idea di
ritirarsi sul passo di Correse.
Dall’alto del castello di Monterotondo mi ero assicurato che era
falsa la notizia dei duemila francesi sulla via romana in procinto di
attaccarci, notizia che mi era stata data da molti durante il combattimento:
pare impossibile che certe cose possano accadere, eppure succedono. E
diversi fra i miei ufficiali, di provata fede, asserirono di averla udita:
nell’infuriare della battaglia si diceva. Ora, in tali frangenti,
andate a scoprire l’origine di queste voci che implicavano un terribile
tradimento, e intanto la voce circolava tra i soldati, li scoraggiava,
e si diffondeva fra loro con la velocità del fulmine. Malvagità
umana! E quanti sono i malvagi da punire in questa società italiana
così corrotta dai preti e dai loro amici!
Una polizia militare è indispensabile in ogni corpo, ma tra i volontari
la ripugnanza verso ogni polizia è talmente forte che è
molto difficile, se non impossibile, organizzarne una.
Alle prime ore della notte del 3 novembre ci ritirammo sul passo di Correse
e passammo il resto della notte in territorio romano, dentro l’osteria
e nei pressi: alcuni comandanti mi fecero sapere che una parte dei soldati
era disposta a non abbandonare le armi e a ritentare la fortuna, ma nella
mattina mi persuasi che tali orientamenti o non erano mai esistiti o non
esistevano più. La mattina del 4 novembre si deposero le armi sul
ponte e gli uomini, disarmati, passarono sul territorio italiano.
Devo una parola di lode al generale Fabrizi, mio Capo di Stato Maggiore,
a cui lasciai l’incarico delle ulteriori operazioni di disarmo:
questo coraggioso veterano dell’indipendenza italiana si comportò
con la consueta bravura sul campo di battaglia di Mentana e, spossato
dalla fatica e dagli anni, fu trasportato a Monterotondo dai soldati dopo
aver spronato la nostra gente, con la parola e con la sua presenza, a
compiere il proprio dovere.
Il colonnello Cavà, che a Correse comandava un reggimento italiano,
e che in precedenti campagne era stato ufficiale ai miei ordini, ebbe
nei nostri confronti un comportamento davvero apprezzabile, in tutte le
circostanze: mi accolse molto amichevolmente, fece per me e per i volontari
ciò che poteva, e mise a mia disposizione un convoglio ferroviario
per andare a Firenze.
Ma non erano queste le direttive del governo: il deputato Crispi, che
era sul treno con me, riteneva che non vi fossero gli estremi per l’arresto,
ma io ero di avviso contrario, sapendo con chi avevo a che fare: adeguandomi
alla sua opinione, e non essendoci altro da fare, rimasi sul treno verso
Firenze. Nel viaggio le solite miserie governative: carabinieri, bersaglieri,
minacce, ecc.; viaggiando a tutta velocità fui portato al mio vecchio
domicilio del forte di Varignano, da cui poi mi lasciarono tornare alla
mia Caprera.
|