L'UNITÀ D'ITALIA

IL CONGRESSO DI VIENNA

Restaurazione dell’assolutismo e liquidazione definitiva della minaccia rivoluzionaria furono gli obiettivi dei vincitori di Napoleone I, che alla fine del 1814 si riunirono nel Congresso di Vienna e concordarono il nuovo equilibrio europeo sulla base degli interessi delle principali potenze: Gran Bretagna, Russia, Austria, Prussia, e la stessa Francia.


Il Regno di Sardegna, con Vittorio Emanuele I, ebbe Genova, Nizza e la Savoia, e il resto dell’Italia mantenne la tradizionale fisionomia monarchica con Ferdinando III di Lorena nel Granducato di Toscana, Maria Luisa d’Asburgo nel Ducato di Parma e Piacenza, Francesco IV d’Austria nel Ducato di Modena e Reggio, i Borboni nel Regno delle Due Sicilie, il papa nello Stato Pontificio. Praticamente tutta l'Italia del nord era dunque sotto controllo austriaco.

Napoleone, che non si era rassegnato alla sconfitta, fece un disperato tentativo: fuggito dall’Elba, il 1° marzo 1815 sbarcò sulla costa francese e le truppe inviate a fermarlo si misero sotto il suo comando, tanto che poté rientrare trionfalmente a Parigi e occupare il Palazzo Reale abbandonato in fretta da Luigi XVIII. Con grande abilità Napoleone cercò soprattutto di ricostruire le condizioni politiche del suo potere, e da una parte avviò un progetto di liberalizzazione dell’impero al fine di acquisire il consenso popolare, e dall’altra rivolse alle potenze europee un invito a non ingerirsi nei fatti interni della Francia.

Il Congresso di Vienna, tuttavia, ancora riunito, rispose mettendo Napoleone al bando dall’Europa e decise l’intervento armato, ma l’imperatore giocò d’anticipo e attaccò gli eserciti alleati di stanza in Belgio: il 18 giugno 1815 a Waterloo fu sconfitto dal duca di Wellington, e dopo solo cento giorni riprese la via dell’esilio; fu inviato nella sperduta isola di Sant'Elena, dove morì nel 1821. Luigi XVIII tornò sul trono di Francia.

Il Congresso di Vienna poté quindi ultimare i propri lavori e, proprio alla luce del colpo di coda di Napoleone, il primo ministro austriaco Klemens Metternich (il grande teorico della controrivoluzione) propose l’introduzione di un principio del tutto nuovo nella storia delle relazioni fra gli Stati: la solidarietà internazionale, secondo forme permanenti di collaborazione che garantissero l’ordine europeo e scongiurassero ogni ipotesi rivoluzionaria. Su proposta dello zar Alessandro I si costituì la Santa Alleanza, che successivamente prese forma ufficiale nella Quadruplice Alleanza tra Russia, Austria, Inghilterra e Prussia. La restaurazione dell’ancien régime era definitivamente compiuta.

RIVOLUZIONE

Ma se leve del potere era ritornate in mano alle forze più conservatrici, questo equilibrio non era certo destinato a durare a lungo: la nascita dell’industria moderna 1 e la rivoluzione francese avevano infatti prodotto le più grandi e profonde trasformazioni sociali che la storia umana avesse mai visto, e ciò aveva innescato un processo irreversibile di cambiamento, che non poteva essere arrestato dalla restaurazione politica.

Le idee di libertà manifestate dalla rivoluzione francese si oreintarono dunque in due grandi filoni, quello liberale e quello democratico.

Il primo esprimeva in chiave moderata i principi dell’89, rifiutandone gli sbocchi radicali e lo stesso concetto di sovranità popolare, assegnando ai soli “proprietari” il diritto di voto, in quanto i nullatenenti e la stessa piccola borghesia non potevano avere interesse a mantenere l’ordine sociale: tutti dovevano essere uguali di fronte alla giustizia, ma spettava solo a un nucleo piuttosto ristretto di alta borghesia di elaborare le leggi. Al centro del liberalismo vi era però l'idea dell’iniziativa privata, intesa come massima garanzia non solo dello sviluppo materiale, ma anche del progresso civile e della felicità 2 individuale.

Malgrado il suo taglio nettamente moderato, il liberalismo fu osteggiato aspramente dal potere, che di fatto lo mise sullo stesso piano dell’altra grande corrente, quella democratica, o radicale: essa aveva come primo obiettivo l'indipendenza delle varie nazioni, coniugandola con i principi giacobini di sovranità popolare e di eguaglianza politica: fu questo nesso a dare forza al movimento democratico, e a dare l’impulso fondamentale ai movimenti ostili ai regimi assolutistici.

Ma fra i liberali era troppo netto il rifiuto delle idee giacobine, e i due schieramenti non riuscirono a trovare un terreno d’intesa comune.

Per sfuggire alla feroce repressione molti gruppi radicali e liberali si organizzarono in Società segrete, che si diffusero in tutti i paesi europei ed ebbero numerosi aderenti sia fra gli intellettuali che fra i giovani ufficiali: la più importante fu senz’altro la Carboneria, e dalla loro attività cospiratoria presero le mosse i tentativi insurrezionali del 1820-1 e del 1830-1: in seguito la loro influenza diminuì nettamente, sia perché dopo il 1830 in Francia e in Inghilterra i regimi usciti dalla rivoluzione del 1830 offrivano la possibilità di organizzarsi legalmente, sia perché ormai era andata profilandosi una terza forza di opposizione all’assolutismo: il nascente movimento socialista, infatti, voleva abbinare l’eguaglianza politica e quella sociale, sostenendo che le garanzie costituzionali non potevano davvero realizzarsi senza un sostanziale mutamento della distribuzione della ricchezza.

La Chiesa cattolica esercitò una funzione determinante nell’opera restauratrice, ma anche al suo interno agirono forze orientate in qualche modo al progresso, consapevoli che l’irrigidimento su posizioni reazionarie poteva favorire la rivolta anticlericale. Più sensibile alle idee liberali fu il mondo religioso del cristianesimo riformato: in Inghilterra la spinta al rinnovamento veniva dai settori del clero più legati agli ambienti operai ed ebbe un notevole seguito il pietismo religioso, che tendeva a mettere in pratica le idee umanitaristiche dell’illuminismo: uno dei principali effetti di questo movimento fu appunto l’abolizione della schiavitù, decisa dapprima in Inghilterra e in seguito negli altri paesi occidentali.

Ecco, quindi, che la situazione politico-culturale europea non era affatto quella, bloccata e immutabile, prospettata dal patto di solidarietà fra le grandi potenze, ma partì dalle colonie il primo segnale, con i movimenti di liberazione nazionali dell’America Latina che misero in crisi il dominio imperiale di Spagna e Portogallo: inevitabile che questi paesi al loro stesso interno fossero investiti dai fermenti di rivolta (1820-1 e poi 1830-4) .

Ai primi dell’800 la popolazione delle colonie spagnole raggiungeva i 17 milioni, di cui la metà indios e poi meticci, neri, bianchi e creoli (bianchi nati in America): se quest’ultimi avevano in mano il potere economico (piantagioni di caffè e cotone, miniere, commercio), erano invece i funzionari provenienti direttamente da Madrid che gestivano l’amministrazione pubblica, ben difendendo gli interessi della madrepatria.


In Europa dopo le guerre napoleoniche vi fu un gravissimo calo della produzione alimentare con conseguente forte diminuzione della capacità di consumo da parte delle famiglie, e ciò rese impossibile per le industrie (in particolare quella tessile) smaltire la propria produzione: ancora una volta, dunque, i fattori economici sono elemento decisivo nei cambiamenti politici, e in questo ambito ebbero notevole fortuna le iniziative cospirative delle Società segrete. La Carboneria, in particolare, riuscì a costruire una rete a livello europeo con lo scopo di avviare un movimento rivoluzionario che coinvolgesse contemporaneamente tutti i paesi, come condizione per impedire alla Santa Alleanza di concentrare la reazione su un singolo focolaio.


In Italia, nel regno di Napoli, la rivoluzione del luglio 1820 vide la partecipazione di numerosi ufficiali aderenti alla Carboneria e costrinse il re Ferdinando I ad adottare una Costituzione: ciò contribuì in modo decisivo a dar maggior vigore all’iniziativa liberale nell’Italia settentrionale, ma il governo austriaco riuscì a prevenire qualsiasi moto, arrestando i principali intellettuali : tra questi Piero Maroncelli e Silvio Pellico, che scontarono dieci anni di carcere nella fortezza dello Spielberg, dove appunto Pellico scrisse Le mie prigioni.

La repressione non riuscì tuttavia a stroncare il movimento, che al contrario si rafforzò, e sotto la guida di Federico Confalonieri elaborò un programma che prevedeva l’unificazione del Lombardo-Veneto e del Piemonte in una monarchia sabauda di tipo costituzionale. Anche Confalonieri venne arrestato, e il centro della lotta si spostò in Piemonte: il re Carlo Alberto mantenne sempre un atteggiamento ambiguo, oscillando tra le ipotesi di rinnovamento e la paura di non pregiudicare il proprio destino personale. Infatti egli dapprima cedette alle pressioni liberali concedendo lo Statuto, una Costituzione, ma poi evitò accuratamente di porsi in contrasto con l'Austria.

Se il 1820 aveva rappresentato il primo segnale della non invincibilità dell’assolutismo, il 1830 fu la svolta decisiva nella lotta fra liberali e reazionari, perché in zone importanti dell’Europa (Francia, Belgio, Svizzera, Inghilterra, Spagna, Portogallo) si affermarono stabilmente regimi liberali e nell’area centro-orientale l’ancien régime vide restringersi notevolmente il proprio spazio di manovra, venendosi così a spezzare definitivamente il blocco reazionario costruito al Congresso di Vienna. Se in Austria, in Prussia, in Russia restavano sostanzialmente immutati i conflitti fra borghesia e residui di feudalesimo, nei paesi in cui si era affermata la svolta liberale lo scontro si spostava sulle nuove contraddizioni createsi con lo sviluppo del capitalismo, in particolare la lotta di classe tra il nascente proletariato e la borghesia agraria e industriale.


L’Italia, come altri paesi, era in una situazione assai peggiore, perché subiva la doppia oppressione di regimi assolutistici e, direttamente o indirettamente, stranieri; d’altra parte la divisione della penisola non favorì certo l’iniziativa dei gruppi liberali, decimati o costretti all’esilio; uno dei capi del movimento, Ciro Menotti, fu arrestato e fucilato.

La sconfitta delle rivoluzioni del 1830-1 provocò inevitabilmente la rottura fra radicali e liberali: dove quest’ultimi avevano preso il potere, si affrettarono a rompere coi vecchi alleati, considerandoli, non a torto, il nuovo nemico; dove la lotta era stata comunque perduta, entrambi si rimproveravano a vicenda per gli errori compiuti.

Dopo il 1830 andò comunque prendendo forma quel nuovo protagonista che era il movimento socialista che tese ad organizzarsi autonomamente e a farsi espressione diretta dei braccianti agricoli e del sempre più numeroso proletariato urbano. E ciò non poteva che spingere la borghesia moderata su posizioni sempre meno liberali.

BORGHESIA E CLASSE OPERAIA

I moti europei del 1830 avevano evidenziato che da una parte il dominio straniero era l’ostacolo principale all’evoluzione in senso liberale e che dall’altra il blocco reazionario era fortemente indebolito: quindi l’elemento politico centrale dei movimenti di rivolta divenne il nazionalismo.

Giuseppe Mazzini capì forse più d‘ogni altro quanto fosse decisivo il sentimento nazionalistico e infatti pose al centro del proprio programma l’obiettivo dell’unità nazionale, intesa come condizione essenziale per il progresso dell’Italia: il nuovo Stato unitario doveva nascere da una profonda rivoluzione politica e morale a forte impronta popolare, mentre altre strade, più moderate, non avrebbero che riproposto le vecchie soluzioni di compromesso, lasciando immutati i caratteri di fondo della società.

Nato a Genova nel 1805, Mazzini entrò nella Carboneria ; arrestato una prima volta nel 1830 fu costretto all’esilio in Francia, dove entrò in contatto sia con gli ambienti democratici. Nel 1831 Mazzini rivolse a Carlo Alberto, un appello a farsi promotore di un grande movimento per l’Italia unita, e contemporaneamente fondò una nuova associazione, la Giovine Italia: il suo programma politico, fondato sugli obiettivi dell’unità e della repubblica, era improntato a un fortissimo sentimento di religiosità, che avrebbe dovuto spingere inevitabilmente gli uomini a lottare per il progresso: ne conseguiva che l’Italia, con la sua straordinaria tradizione culturale, aveva una sorta di missione storica, in quanto il suo Risorgimento assumeva un valore universale di liberazione per tutta l’umanità.

Dio e popolo è dunque la formula che riassume il pensiero mazziniano: da una parte l’educazione del popolo e la sua diretta partecipazione alla rivoluzione, dall’altra la fraternità fra gli uomini, che di per sé escludeva nettamente qualsiasi ipotesi di lotta di classe così come veniva teorizzata dal nascente movimento socialista. C'era poi il nodo della questione contadina, cioè del superamento dei gravissimi squilibri sociali ed economici (ben difesi da una borghesia prevalentemente agraria) che bloccavano ogni ipotesi di sviluppo dell’Italia: di qui l’elemento di maggior debolezza del programma mazziniano, e, soprattutto, il limite di fondo che avrebbe caratterizzato tutto il Risorgimento e la costruzione del nuovo Stato unitario italiano.

La Giovine Italia raccolse immediatamente larghi consensi fra gli intellettuali e la media borghesia urbana, tanto da indurre i gruppi patriottici a promuovere vari, e del tutto prematuri, tentativi insurrezionali (1833-4): la repressione fu immediata, molti furono gli arrestati e lo stesso Mazzini fu condannato a morte; la medesima sentenza fu pronunciata nei confronti di Giuseppe Garibaldi, che partecipò attivamente ai moti di Genova. Malgrado gli insuccessi, Mazzini intensificò l’azione politica e nel 1834 fondò a Berna un organismo che avrebbe dovuto estendere su scala continentale le idee democratiche, la Giovine Europa. I limiti del programma mazziniano sulla questione agraria furono tragicamente confermati (1844) dal tentativo di due suoi seguaci, i fratelli Bandiera, di organizzare una sollevazione popolare in Calabria: tutti i patrioti furono uccisi e questo ennesimo fallimento attirò numerose critiche su Mazzini, che si trovò anche a dover fare i conti con una forte ripresa del movimento liberale moderato.

Pur rimanendo ancora molto arretrata rispetto allo sviluppo capitalistico ormai radicatosi profondamente in Inghilterra e in Francia, anche l’Italia risentì della rivoluzione europea delle comunicazioni, basata soprattutto sulla ferrovia, e avvertì il bisogno, per non essere tagliata fuori dai mercati europei, di rinnovare il sistema dei trasporti, riformare la politica dei dazi, modernizzare la produzione industriale e agricola, rendere più efficiente il sistema fiscale. Questo insieme di problemi era assolutamente alla base di qualsiasi ipotesi di rinnovamento, e se vennero in parte sottovalutati dalle correnti mazziniane, furono invece al centro delle riflessioni di quella borghesia non reazionaria refrattaria sia al generico umanitarismo sia all’egualitarismo giacobino: proprio il giudizio negativo sulla rivoluzione francese era il collante di fondo dei moderati, che rimproveravano all’89 di aver interrotto traumaticamente l’opera dei sovrani illuminati e di negare il grande ruolo svolto dalla Chiesa cattolica; un forte spirito religioso, che però andava in direzione opposta a quanto auspicava Mazzini, era del resto alla base di opere letterarie come i Promessi Sposi.

Dove si era affermato il regime liberale, seppur in modo differenziato nei vari paesi europei, era stato drasticamente ridimensionato il monopolio ecclesiastico o feudale sulla terra, e questa redistribuzione fondiaria (che nel contempo eliminò anche antichi usi in base ai quali i contadini poveri potevano coltivare in comune certi appezzamenti) permise a un nuovo strato di borghesia imprenditoriale di utilizzare l’importantissima risorsa costituita dalla terra, investendo consistenti capitali, innovando le tecniche di produzione (che alla fine del secolo fecero un enorme balzo in vanti con l’inizio della meccanizzazione e dell’introduzione dei fertilizzanti chimici), eliminando vecchi rapporti di lavoro e di gestione ed introducendo anche nelle campagne il sistema del lavoro salariato. Gli enclosures acts emanati in Inghilterra nel 1845, che avevano liquidato sia i privilegi feudali sia i diritti di pascolo e di semina dei contadini, beneficiarono i grandi proprietari terrieri e diedero il via alla diffusione massiccia dell’azienda agraria capitalistica; al tempo stesso moltissimi contadini furono privati di ogni rapporto (sotto forma di piccola proprietà o di contratti colonici o di diritti acquisiti) con la terra e dovettero abbandonare la campagna, andando a ingrossare l’esercito di manodopera indispensabile per le fabbriche. Laddove si realizzò, questo sviluppo del capitalismo nelle campagne è in qualche modo la diretta conseguenza della rivoluzione industriale ed è il passaggio decisivo dei grandi mutamenti socioeconomici di metà ‘800.

Se dunque l’economia europea restava prevalentemente di tipo agricolo, la rivoluzione industriale aveva ormai gettato in modo irreversibile le basi per lo sviluppo della grande fabbrica, e si andava ormai profilando un vero e proprio sistema industriale, caratterizzato dalla possibilità per le aziende di attingere alla forza lavoro concentratasi nelle grandi città, dalla modernizzazione e capillarità della rete bancaria, dai rapporti sempre più stretti fra industria e agricoltura per la produzione alimentare, dalla facilità dei trasporti, dall’aumento dei prodotti coloniali da sottoporre a trasformazione o lavorazione. Comunque il fattore propulsivo fondamentale del capitalismo e della sua capacità di superare le crisi politiche ed economiche che di volta in volta si presentarono, fu la stessa integrazione fra i settori industriali: più seta e cotone arrivavano dalle colonie, più cresceva la domanda di abbigliamento, e più fabbriche tessili sorgevano più aumentava la richiesta di macchine tessili; e più prodotti venivano commercializzati più era essenziale sviluppare le ferrovie: questi ed altri sistemi di interazione portarono rapidamente l’industria metalmeccanica e siderurgica, che producevano telai, locomotive, macchine, rotaie, ecc., ad essere la punta avanzata di tutto il sistema.

Naturalmente i paesi che possedevano le materie prime (carbone e ferro) si trovarono avvantaggiati rispetto agli altri, ma occorrevano anche altri fattori per far parte integrante del mercato industriale: capitali, manodopera, leggi moderne, inventiva, e i paesi che non furono in grado di competere su tutti questi fronti si trovarono ad essere sempre più distanziati dagli altri, restando sottosviluppati: a questo divario, che Marx chiamò “sviluppo ineguale del capitalismo”, sono riconducibili molti dei conflitti e degli squilibri che segnarono la storia mondiale in quel secolo.

Un’altra caratteristica di fondo del nuovo sistema capitalistico era il superamento del sistema di gestione aziendale basato sulla capacità di autofinanziamento del proprietario e sulla proprietà familiare: aumentando vertiginosamente la necessità di far fronte a nuovi e consistenti investimenti, la possibilità di accedere con rapidità ai capitali necessari divenne essenziale, e di qui il ruolo primario assunto dal capitale finanziario, cioè dalle banche, che garantivano il credito necessario, facevano fruttare il denaro dei risparmiatori investendolo nelle attività industriali di maggior successo, e spesso diventavano esse stesse promotrici o proprietarie di tali attività; le nuove leggi sulle società per azioni consentirono poi da una parte di distribuire i propri investimenti con maggior efficacia e minor rischio (perché in caso di fallimento l’azionista rispondeva solo per l’importo delle azioni possedute), e dall’altra di impegnarsi in sfide economiche particolarmente impegnative acquisendo nuovi soci nella propria attività.

La borghesia capitalistica era dunque rapidamente diventata la classe trainante dal punto di vista dello sviluppo, e così come aveva rovesciato a proprio favore i rapporti economici fino a poco tempo prima gestiti dalla nobiltà, analogamente tendeva a fare sul piano del ruolo sociale e politico: da un lato rivendicando per sé l’autorevolezza e il peso che le derivavano dai traguardi raggiunti non per virtù divina o di sangue ma attraverso il lavoro e il rischio, dall’altro puntando a gestire direttamente il potere: ma veniva rifiutato qualsiasi tentativo d’ingerenza nell’economia da parte dello Stato, che doveva rigorosamente limitarsi a garantire la condizione primaria dello sviluppo, cioè il libero dispiegarsi dell’iniziativa privata, rimuovendo tutti gli ostacoli che ad essa potevano frapporsi. E tra questi, naturalmente, vi era il tentativo della classe lavoratrice di migliorare la propria condizione.

I contadini sradicati dalle campagne che erano andati a formare il nuovo strato sociale del proletariato urbano, non avevano altro mezzo di sussistenza che vendere l’unica cosa che possedevano, la propria forza-lavoro, nell’ambito di un sistema basato su un'attività dequalificata e ripetitiva, e sulla ferrea disciplina; a queste dure condizioni si sommava il più delle volte l’impossibilità di contrattare il salario, perché la grande massa di disoccupati consentiva al padrone di scegliere fra coloro (anche bambini) che si offrivano per la paga più bassa e per l’orario di lavoro più lungo. Ma non era solo il sistema della fabbrica in sé ad essere disumano, perché la vita stessa degli operai avveniva in situazioni intollerabili: abitazioni fatiscenti, sottoalimentazione, analfabetismo, elevata mortalità. Sia nella saggistica che nella letteratura (Balzac, Dickens) cominciò ad essere denunciato questo terribile stato di cose, ma la violenta opposizione della borghesia e dei suoi rappresentanti politici impediva qualsiasi mutamento. Solo nel 1844, in Inghilterra, venne approvata una legge che portava a 12 ore e poi a 10 il limite massimo di ore per le donne e i fanciulli, anche se l’applicazione di questa norma rimase in buona misura disattesa.

A fronte di queste condizioni di lavoro e di vita, fra gli operai in qualche misura si creò spontaneamente un senso di solidarietà, ma i primi tentativi di organizzazione e di rivolta si realizzarono in modi ingenui e limitati: le prime associazioni di mestiere, cioè di categoria, furono le Trade unions inglesi, da cui poi partì il tentativo di costruire sindacati nazionali di categoria; e si deve appunto a questi nuclei e al movimento cartista la conquista del Ten hours Bill, la legge che limitava a 10 ore la giornata lavorativa degli adulti.

Le organizzazioni socialiste si riorganizzarono nella Lega dei comunisti e riuscirono a creare propri nuclei organizzati in varie città d’Europa, la Lega divenne una robusta organizzazione internazionale e nel 1848 si diede una vera e propria struttura di partito. A redigerne il programma furono chiamati Friedrich Engels e Karl Marx, e il Manifesto del partito comunista divenne uno dei più celebri documenti politici della storia, oltre che uno dei più riusciti esempi di divulgazione.

IL 1848

Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”: con queste parole inizia appunto il Manifesto, e infatti l’idea della rivoluzione non era più l’utopia di qualche intellettuale, ma era diventata un problema politico all’ordine del giorno, che preoccupava non poco sovrani, capitalisti e moderati.

In realtà le forze reazionarie vedevano in ogni protesta e rivendicazione, anche le più limitate, lo spettro della rivoluzione comunista, senza cogliere invece la complessità di fenomeni che variavano molto da paese a paese, e che andavano da semplici richieste sindacali sul salario e sull’orario a istanze di indipendenza nazionale, da moderati disegni di riforma costituzionale a veri e propri progetti rivoluzionari di stampo socialista. Il fatto che le stesse agitazioni operaie sovente avessero il carattere di rifiuto dell’industrializzazione, sta a indicare che i fermenti di rivolta erano diretti, più che verso la borghesia, contro il vecchio ordine feudale o i suoi residui ancora ben presenti anche nelle società liberali. Negli Stati tedeschi, in Polonia, in Italia, in Austria, prevaleva naturalmente la rivendicazione nazionale, altrove l’esigenza di dare concreta attuazione ai principi affermati nelle costituzioni.

Al di là di queste sostanziali differenze, vi fu un elemento comune a tutte le rivoluzioni del ‘48, e cioè il ruolo finalmente di primo piano svolto dalle correnti democratiche, che ovunque presero l’iniziativa, sovente riuscendo ad avere un ruolo egemone.


La scintilla della rivoluzione scoppiò in Italia: nel 1846 era stato eletto un pontefice, Pio IX, che manifestò delle caute aperture riformistiche, divenendo subito un punto di riferimento, altamente simbolico, per tutte le forze liberali e democratiche; la pubblicazione della Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana, di Massimo D’Azeglio, ridiede slancio all’opinione pubblica liberale, che fece del libro il proprio manifesto politico, ma fu l’introduzione da parte del papa della libertà di stampa nello Stato pontificio a dare una diffusa sensazione che fossero ormai maturi i tempi del grande cambiamento. Sotto l’influenza di questo clima, anche in altri Stati, come la Toscana, i sovrani fecero varie concessioni politiche, e lo stesso Carlo Alberto permise la libertà di stampa. Alla grande attesa non corrisposero però iniziative costituzionali concrete, e di fronte alle titubanze dei moderati i democratici presero decisamente l’iniziativa: vi furono numerose manifestazioni antiaustriache a Genova, a Venezia, in Lombardia, in Toscana, a Napoli, ma fu l’anello debole della catena reazionaria a spezzarsi, con l’ nsurrezione di Palermo del gennaio 1848, guidata da Rosolino Pilo; il successo conseguito con la formazione di un governo provvisorio fece sì che la rivolta si estendesse in tutto il Mezzogiorno, costringendo il re Ferdinando II a concedere la Costituzione. Sotto la forte spinta dell’opinione pubblica, e per prevenire rotture rivoluzionarie, anche Carlo Alberto e il granduca di Toscana concessero la carta costituzionale.

In Francia i lavoratori erano diventati sempre più insofferenti verso lo strapotere della grande borghesia e nel febbraio 1848 Parigi era in mano degli insorti guidati da repubblicani e socialisti. Il governo provvisorio diretto da Alphonse Lamartine proclamò la repubblica, introdusse il suffragio universale maschile, abolì la pena di morte e la schiavitù, portò la giornata lavorativa a 10 ore; altrettanto importante fu il solenne impegno del governo a garantire il diritto al lavoro, che si tradusse immediatamente nella creazione di officine statali (ateliers nationaux) per arginare la disoccupazione.

Nel marzo era insorta anche Vienna: fu il segnale per le nazionalità oppresse dall’Austria, e sia a Budapest che a Praga si costituirono governi costituzionali che diedero avvio a varie riforme. La pressione popolare e l’insurrezione di Berlino costrinsero anche il re di Prussia Guglielmo IV a convocare un’assemblea costituente, che emanò subito tutta una serie di provvedimenti liberali (dalla libertà di stampa al suffragio universale maschile); negli altri Stati tedeschi e nella stessa Prussia la rivoluzione non affrontò solo la questione costituzionale ma pose con forza anche il problema dell’unità nazionale, e venne convocata un‘assemblea di tutte le popolazioni tedesche, il Parlamento di Francoforte, per elaborare un progetto di nuovo Stato unitario. Ma ciò che sarebbe divenuto realtà appena pochi anni dopo (1871), sembrò allora troppo azzardato e il re di Prussia non accolse con favore l’idea, e anzi l’anno successivo sciolse con la forza tale organismo.

La rivoluzione di Vienna fu il segnale per i patrioti italiani e nel marzo 1848 insorsero Venezia, dove fu restaurata la Repubblica veneta, sotto la guida di Daniele Manin, e Milano, dove si costituì un consiglio di guerra presieduto da Carlo Cattaneo che per cinque giornate fronteggiò le truppe austriache del generale Radetzky, poi costrette a rifugiarsi nelle fortezze del cosiddetto quadrilatero (Mantova, Peschiera, Verona e Legnago). Mentre anche a Parma e a Lucca i sovrani furono cacciati, i liberali milanesi, preoccupati che l’insurrezione assumesse una marcata tendenza democratica, rivolsero insistenti appelli a Carlo Alberto affinché intervenisse militarmente, e il re di Sardegna, anche riesumando le vecchie aspirazioni sabaude sulla Lombardia, dichiarò guerra all’Austria.

La cosiddetta prima guerra d’indipendenza creò un fortissimo clima unitario fra le varie componenti patriottiche: Mazzini, giunto prontamente a Milano, rinunciò a qualsiasi rivendicazione repubblicana, e Cattaneo sostenne la necessità di rinviare qualsiasi discussione sul futuro assetto dei territori italiani e di concentrare ogni sforzo nella guerra; oltre ai volontari che accorrevano da tutta Italia, la pressione popolare costrinse vari Stati (Roma, Toscana, Napoli) a inviare contingenti di truppe, che, come nel caso di Guglielmo Pepe, furono messe al comando di generali liberali.

L’incertezza politico-militare dei Piemontesi, che ad esempio rifiutarono l’offerta di Garibaldi di partecipare direttamente alla guerra, consentì a Radetzky di far ritirare le proprie truppe senza perdite e di preparare la controffensiva; anche se i vari governi provvisori si pronunciarono per la fusione col Piemonte, la svolta decisiva si ebbe quando il papa ritirò le proprie truppe, subito imitato dal Granduca di Toscana e dal re di Napoli: a Goito gli italiani vinsero una battaglia, conquistando la fortezza di Peschiera, e a Curtatone e Montanara i volontari toscani conseguirono un importante successo, ma Radetzky ottenne a Custoza 3 la vittoria decisiva, obbligando Carlo Alberto a firmare (9 agosto) l’armistizio. Così Antonio Gramsci spiegò le cause della disfatta: “La politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la ragione principale della sconfitta; essi furono di un’astuzia meschina, furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansionismo piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono il movimento dei volontari; essi, insomma, volevano che armati e vittoriosi fossero solo i generali piemontesi, inetti al comando di una guerra tanto difficile.” 4

La rivoluzione parigina era stata stroncata appena un mese prima ed era stato il segnale generale del riflusso rivoluzionario e della rivincita reazionaria. Alle elezioni di dicembre prevalse il candidato conservatore Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone I, che presto avrebbe seguito le abitudini di famiglia, scegliendo la strada del potere personale.

L’esercito austriaco bombardò Praga in giugno e dopo marciò su Vienna, assediando la città e riconquistandola dopo alcune settimane; il nuovo imperatore Francesco Giuseppe, incoronato dopo l’abdicazione di Ferdinando, ripreso il controllo della capitale puntò subito a ripristinare l’ordine in Ungheria: per quasi un anno i patrioti ungheresi riuscirono a resistere, finché l’intervento dell’esercito russo fece capitolare la città.

La rivoluzione si esauriva in tutta l’Italia meridionale, mentre a Roma i patrioti rilanciarono l’iniziativa, tanto che Pio IX dovette rifugiarsi a Gaeta; nel febbraio del 1849 fu eletta un’Assemblea costituente che proclamò la fine del potere temporale del papa e la nascita della Repubblica romana, alla cui guida fu chiamato un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. L’ipotesi di un’unione con la Toscana, dov'era stato formato un governo democratico, incontrò le forti resistenze dei moderati, finché nel luglio anche in Toscana la reazione riuscì a prevalere e il granduca tornò sul trono. Solo Roma e Venezia continuarono la rivoluzione, ma già un corpo di spedizione francese era pronto a intervenire, perché il presidente Luigi Bonaparte voleva conquistarsi l’appoggio dei clericali e liquidare definitivamente l’opposizione radicale; mentre Garibaldi combatteva più a sud contro i borbonici, battendoli ripetutamente, i francesi assediavano Roma, che pure resisteva con fortissima tenacia, e solo nel mese di luglio i capi militari, Garibaldi e Carlo Pisacane, decisero che era impossibile continuare oltre: l’Assemblea costituente decise di promulgare, prima di sciogliersi, la Costituzione che prevedeva il suffragio universale. L’importanza della Repubblica romana non fu solo simbolica, per l’eroismo con cui aveva combattuto, ma soprattutto per gli atti concreti di riforma che aveva avviato, primo fra tutti il riordino fondiario tramite l’espropriazione dei beni ecclesiastici e la concessione delle terre ai contadini, la prima vera e propria riforma agraria mai tentata in Italia, cioè la base di quella rivoluzione rimasta sempre incompiuta nel nostro paese.

Dopo il crollo dell’Ungheria si capì che anche per Venezia il destino era segnato, e, malgrado molti patrioti fossero accorsi da altre regioni, la Repubblica dovette cedere alle truppe nemiche, alla fame e al colera, arrendendosi alla fine di agosto.

Nel regno di Sardegna si era nel frattempo decisa la ripresa delle ostilità verso l’Austria, e, visti gli scarsi risultati ottenuti dai generali piemontesi, il comando delle truppe fu affidato a un generale polacco: che però non ebbe maggior successo, perché gli austriaci vinsero rapidamente e in modo decisivo a Novara (marzo ‘49); il nuovo re Vittorio Emanuele II (Carlo Alberto aveva appena abdicato) firmò un armistizio piuttosto favorevole, dato che non comportava perdite territoriali o la revoca dello Statuto albertino. Durante la guerra era insorta Brescia, e il patriota Tito Speri guidò una disperata resistenza che durò dieci giorni, al termine dei quali l’Austria aveva ripristinato l’ordine in tutto il nord Italia.

L’UNITÀ

Il ricordo del ‘48 aveva convinto la borghesia moderata europea a rompere del tutto con gli ambienti democratici, alleandosi di fatto con le forze reazionarie per prevenire altri sconvolgimenti: ma gli esponenti dell’ancien régime erano ormai definitivamente i partner più deboli di tale alleanza, e il periodo fino al 1870 fu caratterizzato dal compromesso con la monarchia, attraverso il quale la borghesia moderata riuscì ad attuare il proprio disegno di potere: il ‘48, insomma, aveva decretato in Francia, in Germania e in Austria il trionfo della borghesia capitalistica.

La Chiesa cattolica era fortemente preoccupata da questa svolta liberale, seppur moderata, e, dopo aver constatato l’impossibilità di rispondere al ‘48 con una restaurazione analoga a quella del ‘15, s’impegnò a dar battaglia sul piano politico: il conflitto fra Stato liberale e Chiesa divenne aperto prima con il Sillabo papale del 1864, attraverso il quale il Vaticano dichiarò l’inconciliabilità della dottrina cristiana col progresso e col liberalismo, e poi con un rinnovato rigore dottrinario che portò alla proclamazione (1870) del dogma dell’infallibilità del papa.

Al grande periodo rivoluzionario seguì dunque una fase in cui la vita politica europea fu dominata dalle diplomazie internazionali e dai suoi protagonisti: Bismarck, Palmerston, Napoleone III, Cavour; contemporaneamente si andarono rafforzando le spinte nazionalistiche nei paesi slavi e balcanici, crollò definitivamente l’impero turco, aumentò fortemente l’influenza occidentale in India, Giappone e Cina, e gli Stati Uniti furono protagonisti di uno straordinario sviluppo economico. Questo processo di crescita capitalistica investì tutti i paesi, soprattutto per l’effetto del liberismo economico che ridusse fortemente le barriere doganali; non a caso la rete ferroviaria europea quintuplicò la propria estensione nel giro di vent’anni.

All’inizio di questa fase storica in Francia rinacque addirittura l’impero; la disfatta della rivoluzione del febbraio 1848 non significò solo il fallimento delle aspirazioni popolari, ma aprì la strada a uno sbocco decisamente autoritario: approfittando dei contrasti fra moderati e repubblicani, il presidente Luigi Bonaparte attuò un colpo di stato nel dicembre 1851, sciogliendo il parlamento e preparando il terreno costituzionale che gli permise, l’anno dopo, di farsi proclamare imperatore col nome di Napoleone III.

La prima guerra d’indipendenza italiana si risolse in un rafforzamento dell’Austria, che in pratica controllava, direttamente o indirettamente tutta l’Italia, fatta eccezione per il regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna. Il primo aveva visto una ripresa integrale dell’assolutismo, che bloccò qualsiasi progresso politico, economico e sociale, e in questo immobilismo si rivelò la fragilità del regime, tanto che la “questione napoletana” attirò l’attenzione dei molti che ipotizzavano di riuscire a riprendere il cammino unitario, magari proprio a partire da questo anello debole della catena.

Il Piemonte aveva conservato il suo ordinamento costituzionale, anche se non esitò a reprimere con forza l’insurrezione di Genova del ‘49; il fatto che alla Camera ci fosse una preoccupante maggioranza liberal-progressista indusse il re a indire nuove elezioni, proclamando che lo Statuto si poteva salvare solo ridimensionando le forze antimonarchiche: i risultati elettorali lo premiarono, e il primo ministro Massimo D’Azeglio diede il segno di voler effettivamente riprendere, pur con la dovuta cautela, la strada delle riforme; nel 1850 furono approvate varie leggi che limitavano i privilegi ecclesiastici, suscitando le violente proteste del clero e degli aristocratici.

Alla nobiltà che guardava invece con simpatia la borghesia liberale, apparteneva il nuovo ministro dell’agricoltura, Camillo Benso di Cavour: aveva studiato con attenzione i problemi economici e si era convinto che lo sviluppo capitalistico esigeva decise misure di rinnovamento, dato che il pieno dispiegarsi del libero scambio, condizione essenziale del progresso, poteva realizzarsi solo nell’ambito di società prive dei vincoli assolutistici e dei residui feudali; Cavour vedeva l’indipendenza italiana come la naturale cornice di questo sviluppo, restando comunque del tutto ostile al pensiero radicale, e da questa sua posizione nettamente centrista si rivelò come l’esponente politico moderato più abile. Egli capì perfettamente che le posizioni democratiche non si potevano liquidare con la forza o tenere semplicemente ai margini del dibattito politico, quindi si pose subito il problema di dividere il fronte avversario, allacciando rapporti sempre più cordiali con la sinistra moderata, come appunto avvenne in occasione dell’approvazione di vari trattati commerciali con i paesi più industrializzati, quando la sinistra parlamentare votò le proposte di Cavour. Ciò produsse addirittura una nuova maggioranza (che i conservatori definirono sprezzantemente “connubio”), il che era precisamente l’obiettivo di Cavour, nominato primo ministro alla fine del 1852 al posto di D’Azeglio, messo in minoranza dalla destra sull’introduzione del matrimonio civile.

Nelle file del movimento democratico europeo infuriava nel frattempo la polemica sulle ragioni di quanto era accaduto nel ‘48. Mazzini sosteneva che si era avuta la dimostrazione della maturità dei popoli rispetto alla questione nazionale e che la causa del prevalere della reazione fosse da ricercarsi nella frattura creata nel campo rivoluzionario dalle correnti socialiste: occorreva dunque bandire decisamente il concetto stesso di lotta di classe, fattore di divisione e d’impoverimento morale, e su questa base fondò a Londra (1850) il Comitato centrale democratico europeo; Mazzini era anche convinto che la spinta rivoluzionaria sarebbe nuovamente partita dall’Italia, dov'era crollato il mito del neoguelfismo, i moderati avevano dimostrato la loro incapacità di gestire la guerra d’indipendenza, e si erano avuti gli esempi straordinari di Roma, Milano e Venezia.

Da sinistra si obiettava che Mazzini si limitava ad enunciazioni di principio, senza guardare ai contenuti sociali del processo rivoluzionario, senza capire, cioè, che solo affrontando i bisogni concreti del popolo si potevano creare le condizioni per la vittoria sulla reazione: Carlo Pisacane fu il più lucido in questa critica, inserendola in una visione più ampia dell’evoluzione del mondo moderno e dando quindi al punto di vista socialista un carattere meno dottrinario e più aderente alla realtà; in sostanza Pisacane sosteneva che non c’era alcun contrasto fra lotta nazionale e lotta sociale, ma che anzi i due aspetti dovevano necessariamente fondersi affinché il mutamento politico fosse davvero tale. Questa corrente di pensiero, il cosiddetto socialismo risorgimentale, non riuscì tuttavia a fornire una concreta alternativa, soprattutto sul piano organizzativo, al programma mazziniano, che invece seppe creare importanti rapporti con le prime società operaie di mutuo soccorso: Mazzini sopravvalutò enormemente la robustezza delle proprie strutture rivoluzionarie e soprattutto non seppe cogliere i reali rapporti di forza venutisi a creare in Italia dopo il ‘48: convinto dell’esistenza di una situazione prerivoluzionaria, nel 1853 organizzò a Milano un tentativo insurrezionale, che però fu immediatamente stroncato dalla polizia austriaca.

All’inevitabile ulteriore ondata di critiche, Mazzini reagì con un inasprimento della propria intransigenza dottrinaria (verso sinistra rompendo del tutto coi socialisti, verso destra accentuando la pregiudiziale repubblicana), diede ai propri comitati una rigida struttura (Partito d’Azione) e continuò a sostenere che l’Italia fosse un paese pronto ad esplodere da un momento all’altro: ma i vari tentativi insurrezionali promossi dopo il ‘53 fallirono tutti, e andò quindi a rafforzarsi quella corrente democratica che riteneva politicamente indispensabile trovare qualche accordo con la monarchia sabauda: ne erano convinti gli stessi Garibaldi e Manin, che nel 1857 costituirono la Società Nazionale, con lo scopo di spingere Vittorio Emanuele e Cavour ad assumersi in prima persona la responsabilità di guidare la causa dell’indipendenza nazionale. Di fronte a questa iniziativa vi fu un riavvicinamento tattico tra Mazzini e Pisacane, che elaborarono un’azione insurrezionale coordinata fra Italia meridionale e settentrionale: nel giugno ‘57 Pisacane sbarcò con trecento uomini a Sapri (Salerno), ma l’atteso appoggio popolare non vi fu, anzi le autorità borboniche convinsero i contadini che si trattava di una banda di malfattori, e così i patrioti furono dispersi e uccisi; analogamente fallirono i tentativi di Genova e Livorno. Si è molto detto della spedizione di Sapri e dell’impossibilità della sua riuscita, ma ciò non toglie che Pisacane rimane comunque uno degli uomini che in quel periodo ha meglio analizzato il rapporto masse - rivoluzione, struttura sociale - indipendenza nazionale, e la sua fine è dovuta probabilmente alla volontà di lasciare un segno morale, una testimonianza simbolica.

Mentre la politica mazziniana era in evidenti difficoltà, il Piemonte andava rapidamente assumendo il ruolo che molti auspicavano, quello di motore e di guida dell’unità nazionale: ciò in buona misura fu dovuto alla solidità politica di questo Stato, basata sul mantenimento dell’ordine costituzionale, sul rafforzamento delle sue strutture economiche, sulla capacità di presenza nella scena internazionale.

Nel 1853 lo zar Nicola I occupò alcuni territori balcanici sotto il dominio turco, e Francia e Inghilterra, preoccupate dall’espansionismo russo, si schierarono a fianco della Turchia, invitando le altre nazioni europee a fare altrettanto; la guerra si svolse in Crimea e mentre l’Austria esitava, temendo che il Piemonte potesse approfittarne per riaprire le ostilità sul territorio italiano, Cavour inviò (1855) un corpo di spedizione di 15.000 uomini comandati dal generale La Marmora e poté inserire il regno di Sardegna fra le potenze vincitrici: ciò gli consentì di porre con forza sulla scena europea lo squilibrio politico, rispetto allo stesso Congresso di Vienna, provocato dalla presenza di truppe austriache nello Stato pontificio: Inghilterra e Francia appoggiarono questa posizione e il fatto che l’Austria restasse politicamente isolata fu esattamente il risultato che si era prefisso Cavour, il quale per l’opinione pubblica italiana divenne il capofila della lotta per l’indipendenza. Mentre allacciava rapporti sempre più stretti con la Società nazionale di Garibaldi e Manin, anche per isolare il movimento repubblicano, Cavour intesseva una complessa trattativa diplomatica con la Francia, immaginandola come il migliore alleato in vista di una futura guerra con l’Austria; il piano sembrò naufragare quando il repubblicano Felice Orsini compì un attentato, peraltro fallito, contro Napoleone III, nella speranza che la morte dell’imperatore avrebbe suscitato la ripresa repubblicana, ma Cavour seppe addirittura rovesciare a proprio vantaggio l’episodio, convincendo Napoleone ad affrettare i tempi dell’alleanza proprio per scongiurare l’eventualità di altre iniziative rivoluzionarie.

A scanso di equivoci Cavour adottò varie misure repressive contro i democratici e accusò pubblicamente i mazziniani di praticare la “teoria del pugnale”; Mazzini, che comunque era estraneo all’attentato, replicò con sdegno a questo evidente cinismo cavouriano, ma intanto il primo ministro piemontese aveva raggiunto lo scopo: nel luglio 1858 firmò con Napoleone l’accordo di Plombières, in base al quale venivano fissati gli obiettivi comuni da perseguire con la guerra all’Austria: creazione di un regno dell’Alta Italia, con l’annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, e di uno dell’Italia centrale; ridimensionamento dello Stato pontificio a Roma e ai territori circostanti; integrità territoriale del regno delle Due Sicilie; cessione alla Francia della Savoia e di Nizza.

La seconda guerra d’indipendenza scoppiò nell’aprile del 1859, e alle truppe regolari si affiancò un gruppo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, guidati da Garibaldi: a Magenta e a Palestro i franco-piemontesi ottennero delle vittorie immediate e decisive, in parte bilanciate dallo scontro terribile di Solferino, e Napoleone, temendo che la Prussia scendesse a fianco dell’Austria, propose un armistizio, che fu firmato a Villafranca e che prevedeva solo l’annessione al Piemonte di una parte della Lombardia e il ripristino dell’ordine nei territori (Toscana, Ducati, Stato pontificio) che si erano ribellati. Vittorio Emanuele II accettò di buon grado queste condizioni, ma Cavour rifiutò un compromesso che di fatto svuotava tutto il suo progetto e rassegnò le dimissioni.

La delusione per questa vergognosa soluzione diplomatica (che violava apertamente l’accordo di Plombières) non fu però sufficiente a liquidare l’entusiasmo dei patrioti italiani per quella che sembrava la svolta decisiva verso l’indipendenza, e, superando i dissidi interni, la Società nazionale e i mazziniani diedero il via all’insurrezione della Toscana: il granduca Leopoldo dovette fuggire e a Firenze si formò un governo provvisorio presieduto da Bettino Ricasoli; alcune settimane prima le truppe austriache di stanza nei ducati di Modena e di Parma e in Emilia Romagna erano state ritirate da quei territori per essere impegnate sul fronte, e quindi le manifestazioni e le rivolte non incontrarono ostacoli e portarono alla creazione di governi rivoluzionari; nelle Marche e nell’Umbria, invece, le truppe pontificie riuscirono a soffocare l’insurrezione. Questi avvenimenti erano esattamente ciò che l’armistizio di Villafranca voleva evitare, e, malgrado la grande prudenza del governo piemontese e l’evidente ostilità di Napoleone, i governi provvisori si prepararono alla resistenza, creando un esercito unificato al comando di Manfredo Fanti, che aveva come vice Garibaldi; la situazione sembrava doversi risolvere drammaticamente, quando (gennaio 1860) Cavour venne nuovamente chiamato a dirigere il governo: la sua iniziativa diplomatica puntò a un compromesso tra i rischi di restaurazione e l’allargamento della rivoluzione, e a fronte della cessione di Nizza e della Savoia ottenne il consenso di Napoleone all’annessione delle regioni dell’Italia centrale, che nel plebiscito del marzo 1860 votarono a larghissima maggioranza per questa soluzione.

Il processo di unità si era dunque bruscamente interrotto, ma ormai le forze democratiche non erano più disperse e minoritarie, e potevano anzi far valere a buon diritto il ruolo avuto nello scontro con l’Austria: il cammino verso l’unità non avrebbe tardato

Francesco II, da poco succeduto al padre sul trono, non sembrò dar segni di voler uscire dall’immobilismo tipico del regno di Napoli, malgrado il crescente malcontento delle masse contadine per le condizioni di miseria in cui si trovavano: era una situazione di crisi insanabile, ma le forze moderate che avevano gestito il movimento unitario si muovevano con grande cautela, visti i ristretti margini di manovra consentiti dal quadro diplomatico europeo; la prospettiva rivoluzionaria riprendeva dunque una propria concretezza e su di essa ritrovarono unità d’intenti sia i mazziniani del partito d’Azione che gli aderenti alla Società nazionale. Prese forma rapidamente il progetto di una spedizione militare, con Garibaldi come comandante, in Sicilia, dove maggiore era il contrasto fra governo borbonico e popolazione, e Cavour scelse una linea di attesa, consapevole di non poter appoggiare apertamente l’iniziativa ma di non poterla nemmeno impedire, visto il vasto consenso popolare acquisito dai democratici.

Agli inizi di maggio del 1860 da Quarto, vicino a Genova, un migliaio di volontari male armati, in parte provenienti dalle regioni del nord in parte esuli meridionali, partirono su due navi in direzione della Sicilia: sbarcato a Marsala senza incontrare resistenza, Garibaldi emanò un decreto in cui assumeva la dittatura dell’isola “in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”, e in poche settimane travolse l’esercito borbonico, battendolo a Calatafimi, entrando trionfalmente a Palermo e ottenendo la vittoria decisiva a Milazzo. Il governo provvisorio presieduto da Francesco Crispi, futuro primo ministro italiano, fu in realtà assai prudente, e si guardò bene dal prendere provvedimenti analoghi a quelli adottati a suo tempo dalla repubblica romana, anzi, di fronte ai movimenti che reclamavano la riforma agraria, non esitò ad agire con estrema durezza: nel paese di Bronte, dove i contadini avevano occupato le terre dei latifondisti, Nino Bixio, vicecomandante dei garibaldini, comandò di persona la violenta repressione. Un episodio emblematico della contraddizione di fondo del processo unitario: si andava formando un’entità nazionale basata più sui principi politici che sulla loro concreta attuazione, e gli interessi della borghesia agraria e industriale prevalevano nettamente sulle esigenze di riforma sociale e di riequilibrio delle condizioni economiche.

Sbarcate in Calabria, le truppe di Garibaldi furono accolte con entusiasmo dalle popolazioni e riuscirono rapidamente ad avere la meglio su un esercito borbonico demotivato e privo di una guida adeguata: con l’occupazione di Napoli e con la battaglia sul Volturno, nell’ottobre, il regno delle Due Sicilie non esisteva più.

Le forze democratiche vedevano dunque confermate le loro previsioni e si andava nettamente rafforzando, anche nei settori moderati dell’opinione pubblica, l’idea che l’unità italiana dovesse comprendere senz’altro tutte le regioni della penisola, compresa Roma, e che l’obiettivo era ormai a portata di mano; l’iniziativa politica era ormai tutta a vantaggio dei democratici, e Cavour dovette intervenire con decisione per non essere tagliato fuori: convinse Napoleone che occorreva evitare uno sbocco rivoluzionario generalizzato e che per far ciò era indispensabile attivare immediatamente un contrappeso politico-militare; le truppe piemontesi del generale Fanti occuparono le Marche e l’Umbria, battendo l’esercito pontificio, e lo stesso Vittorio Emanuele prese poi il comando delle operazioni, dirigendosi verso il confine napoletano e incontrando Garibaldi a Teano. Ancora una volta Cavour aveva visto giusto e il tempestivo intervento dell’esercito regolare aveva di fatto tolto ai democratici la possibilità di proseguire la rivoluzione democratica o comunque di influenzare in senso antimoderato il processo unitario: con una procedura già collaudata, fu attuata l’annessione di Marche, Umbria e Due Sicilie al Piemonte, l’esercito garibaldino venne sollecitamente smantellato, il controllo politico e amministrativo sui nuovi territori fu assunto direttamente dai funzionari piemontesi e Garibaldi se ne tornò nella sua Caprera.

Liquidata l’ultima resistenza borbonica a Gaeta, nel febbraio 1861, il processo unitario si era dunque concluso sotto l’egemonia moderata e il nuovo Stato nasceva all’insegna della salda alleanza fra borghesia liberale del nord e agrari conservatori del sud. A metà febbraio si riunì a Torino il primo parlamento nazionale, che ratificò l’unificazione e il 17 marzo 1861, due mesi prima della morte di Cavour, fu proclamato il regno d’Italia.

La borghesia europea aveva definitivamente abbandonato qualsiasi velleità rivoluzionaria, scegliendo al tempo stesso il principio della sovranità nazionale come base dell’evoluzione politica e dello sviluppo economico: era l’espansione stessa del capitalismo che richiedeva la rottura coi vecchi equilibri feudali, ma questa svolta liberale avvenne in modo diverso nei vari paesi.

Se in Italia nazionalismo e libertà avevano in qualche modo trovato una loro armonia, in Germania l’unificazione si realizzò, al contrario, con la sconfitta dei liberali. A guidare il percorso unitario fu la Prussia, cioè il paese che era diventato il primo produttore europeo di carbone (nelle regioni della Ruhr e della Slesia) e di acciaio, e che per la sua forza industriale aveva saldamente in mano l’economia della regione tedesca, anche tramite l’unione doganale (Zollverein) da essa stessa impostata; alle ragioni ideali dell’unificazione, di cui già si erano fatti portatori gli intellettuali, si vennero quindi ad aggiungere i motivi assai più concreti della borghesia imprenditoriale: diversi, però, erano i modi per raggiungere l’ obiettivo, perché i liberali ritenevano indispensabile disegnare un quadro costituzionale e parlamentare, mentre l’aristocrazia prussiana - anch’essa, con gli Junker, impegnata direttamente nelle attività agricole e industriali - non intendeva perdere la propria posizione preminente e vedeva il processo come affermazione del primato della monarchia di Prussia. Il nuovo re Guglielmo I nel 1852 affidò l’incarico di cancelliere a Ottone di Bismarck, aristocratico e conservatore, deciso fautore dell’unificazione, che pensò subito a un forte rafforzamento militare inteso come base dell’egemonia sugli altri Stati tedeschi e della competizione con l’Austria; imbastì poi un’accorta politica delle alleanze, da una parte assicurandosi la neutralità della Francia, dall’altra accordandosi con l’Italia per attaccare l’Austria su due fronti, con l’impegno che in caso di vittoria il Veneto sarebbe diventato italiano: la guerra (che per l’Italia passò alla storia come terza guerra di indipendenza) fu dichiarata nel 1866, e iniziò con due sconfitte italiane, a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, compensate però nettamente dalla vittoria del fortissimo esercito prussiano a Sadowa: il trattato di pace stabilì, oltre al passaggio del Veneto all’Italia e allo spostamento della capitale da Torino a Firenze, che gli Stati tedeschi del nord si sarebbero riuniti in una Confederazione Germanica presieduta da Guglielmo I, governata dal cancelliere Bismarck, e, importante novità, con un parlamento federale (Reichstag) eletto a suffragio universale; gli Stati tedeschi del sud si riunirono in una Confederazione autonoma, ma era evidente la loro subordinazione a Bismarck, che uscì come il trionfatore di questa politica che mescolava abilmente assolutismo e liberalismo, supremazia prussiana e visione nazionale.


1 L’industria manifatturiera è quella in cui la materia prima viene trasformata in prodotto finito o semilavorato; a loro volta tali settori si dividono in industria pesante (meccanica, metallurgica, siderurgica) e industria leggera (piccoli prodotti di largo consumo, ad es. i. tessile); del manifatturiero non fanno parte le industrie estrattive, di produzione energetica e l’edilizia. L’industria è anche definita settore secondario dell’economia, essendo l’agricoltura il primario, e i servizi il terziario.

2 Così recita uno degli articoli fondamentali della Costituzione degli Stati Uniti: “Pensiamo che Dio abbia creato gli esseri umani tutti liberi ed eguali, e con eguali diritti a perseguire la felicità.”

3 Paese veneto non molto fortunato per gli italiani, visto che anche nel 1866 fu teatro di una vittoria austriaca.

4 A. Gramsci, op. cit., p. 118.