IL PERIODO STORICO
[qui un riassunto riferito alla sola Unità]
IL CONGRESSO DI VIENNA
Costruzione delle
basi politiche di una pace duratura, restaurazione dell’assolutismo e liquidazione definitiva della minaccia rivoluzionaria
furono gli obiettivi dei vincitori di Napoleone I, che alla fine del
1814 si riunirono nel Congresso di Vienna e concordarono il nuovo equilibrio
europeo sulla base degli interessi delle principali potenze: Gran Bretagna,
Russia, Austria, Prussia, e la stessa Francia. Naturalmente non venne
tenuto alcun conto delle aspirazioni nazionali emerse fra le popolazioni
e si puntò soprattutto a rispettare il principio di legittimità
dei sovrani spodestati da Napoleone
La Gran Bretagna conservò Malta, acquisì
Ceylon, la colonia del Capo, una parte della Guinea e alcune delle Antille.
L’Austria perse il Belgio, ma ottenne il Lombardo-Veneto,
il Trentino, l’Istria e la Dalmazia. La Prussia
ottenne i territori alla sinistra del Reno, il bacino della Ruhr e una
parte della Sassonia. La Russia conservò la
Finlandia e il protettorato sul ricostituito Regno di Polonia. La Francia mantenne l’integrità del territorio nazionale. La Svezia
incorporò la Norvegia. Il Belgio e l’Olanda formarono il
Regno dei Paesi Bassi sotto Guglielmo I d’Orange
e Nassau. Il dissolto Sacro Romano Impero lasciò il posto alla Confederazione Germanica, che raggruppava trentotto
Stati indipendenti tra i quali la Prussia, la Sassonia, la Baviera.
La Confederazione Svizzera vide da tutti garantita la propria neutralità.
Il Regno di Sardegna, con Vittorio Emanuele I, ebbe
Genova, Nizza e la Savoia, e il resto dell’Italia mantenne la
tradizionale fisionomia monarchica con Ferdinando III di Lorena nel Granducato di Toscana, Maria Luisa d’Asburgo
nel Ducato di Parma e Piacenza, Francesco IV d’Austria
nel Ducato di Modena e Reggio, i Borboni nel Regno
delle Due Sicilie, il papa nello Stato Pontificio.
Napoleone, che non si era rassegnato alla sconfitta, fece un disperato
tentativo: fuggito dall’Elba, il 1° marzo 1815 sbarcò
sulla costa francese e le truppe inviate a fermarlo si misero sotto
il suo comando, tanto che poté rientrare trionfalmente a Parigi
e occupare il Palazzo Reale abbandonato in fretta da Luigi XVIII. Con
grande abilità Napoleone cercò soprattutto di ricostruire
le condizioni politiche del suo potere, e da una parte avviò
un progetto di liberalizzazione dell’impero al fine di acquisire
il consenso popolare, e dall’altra rivolse alle potenze europee
un invito a non ingerirsi nei fatti interni della Francia.
Il Congresso di Vienna, tuttavia, ancora riunito, rispose mettendo Napoleone
al bando dall’Europa e decise l’intervento armato, ma l’imperatore
giocò d’anticipo e attaccò gli eserciti alleati
di stanza in Belgio: dopo una prima vittoria, il 18 giugno 1815 a Waterloo fu sconfitto dal duca di Wellington, e dopo solo cento giorni riprese
la via dell’esilio; fu inviato nella sperduta isola di Sant'Elena,
dove morì nel 1821. Luigi XVIII tornò sul trono di Francia.
Con l’Atto finale del giugno 1815 il Congresso di Vienna poté
quindi ultimare i propri lavori e, proprio alla luce del colpo di coda
di Napoleone, il primo ministro austriaco Klemens Metternich (il grande teorico della controrivoluzione) propose l’introduzione
di un principio del tutto nuovo nella storia delle relazioni fra gli
Stati: la solidarietà internazionale, secondo forme permanenti
di collaborazione che garantissero l’ordine europeo e scongiurassero
ogni ipotesi rivoluzionaria. Su proposta dello zar Alessandro I si costituì
la Santa Alleanza, che successivamente prese forma
ufficiale nella Quadruplice Alleanza tra Russia, Austria, Inghilterra
e Prussia. La restaurazione dell’ancien régime era definitivamente compiuta.
TRA ROMANTICISMO E RIVOLUZIONE
Ma se leve del potere era ritornate in mano alle forze più conservatrici,
questo equilibrio non era certo destinato a durare a lungo: la nascita
dell’industria moderna e la rivoluzione francese avevano infatti
prodotto le più grandi e profonde trasformazioni sociali che
la storia umana avesse mai visto, e ciò aveva innescato un processo
irreversibile di cambiamento, che non poteva essere arrestato dalla
restaurazione politica, malgrado questa, paradossalmente, avesse trovato
un potente alleato nella cultura romantica.
Sorto in Germania come reazione alla cultura francese dominante, il
romanticismo non poté che caratterizzarsi in chiave anti-illuministica:
la filosofia idealistica (Fichte, Schelling) contro
il sensismo e il materialismo, il progetto di una nuova teocrazia (de
Maistre) contro le idee ateistiche e repubblicane, l’esaltazione
dei valori cavallereschi (i romanzi di Walter Scott) contro l’egualitarismo,
la nostalgia della tradizione medievale e del nazionalismo (Novalis,
Schlegel) contro il cosmopolitismo, l’apologia dell’antica
saggezza e generosità dei signori feudali contro lo sviluppo
capitalistico e le rivendicazioni delle classi subalterne.
Ma già intorno al 1820 queste tendenze culturali reazionarie
passarono in secondo piano e la figura dell’intellettuale romantico
(simboleggiato da quel lord Byron morto per la libertà
della Grecia contro il dominio turco, tant’è che il filoellenismo
divenne una caratteristica dominante del movimento romantico) tese a
identificarsi con il ribelle insofferente delle censure e dell’autoritarismo,
talvolta spinto alla fuga dalla realtà: le opere letterarie dei
francesi Lamartine, Madame de Staël, Hugo, Balzac, dell’italiano Leopardi, del russo Puskin, degli
inglesi Keats e Shelley; la musica di Beethoven,
Schubert, Chopin, e poi di Verdi e Wagner.
La rielaborazione romantica delle idee di libertà manifestate
dalla rivoluzione francese trovò terreno fertile non solo nel
campo artistico, ma anche in quello del pensiero politico, filosofico
e giuridico, orientandosi in due grandi filoni, quello liberale e quello democratico.
Il primo esprimeva in chiave moderata i principi dell’89,
rifiutandone gli sbocchi radicali e lo stesso concetto di sovranità
popolare, assegnando ai soli “proprietari” il diritto di
voto, in quanto i nullatenenti e la stessa piccola borghesia non potevano
avere interesse a mantenere l’ordine sociale: tutti dovevano essere
uguali di fronte alla giustizia, ma spettava solo a un nucleo piuttosto
ristretto di alta borghesia di elaborare le leggi. Sul versante politico
Benjamin Constant fu uno dei principali teorici del
liberalismo, mentre Adam Smith (La ricchezza delle
nazioni, 1776) fornì il massimo contributo di elaborazione
nell’ambito dell’economia: l’Inghilterra, avendo per
prima sperimentato il sistema produttivo nato con la rivoluzione industriale,
era il paese più adatto per lo sviluppo di un nuovo pensiero
economico (che sarà poi definito l’economia politica
classica), e Smith, appunto, mise al centro del liberalismo l’iniziativa privata, intesa come massima garanzia non solo dello
sviluppo materiale, ma anche del progresso civile e della felicità
individuale; malgrado questa visione ottimistica dovesse nel secolo
successivo essere crudamente smentita dai fatti, tuttavia essa ebbe
un ruolo decisivo nel fornire al nascente capitalismo gli strumenti
teorici per opporsi efficacemente alle ottuse resistenze dei fautori
del vecchio sistema feudale. Accanto a Smith due grandi economisti,
sempre inglesi, furono Robert Malthus, che per primo
intuì i gravi squilibri che poteva produrre l’incontrollato
sviluppo demografico, e David Ricardo, che studiò
la tendenza del salario operaio a mantenersi ai livelli minimi di sopravvivenza
e le nuove contraddizioni (soprattutto la disoccupazione) causate dall’introduzione
delle macchine.In
Germania il romanticismo conservatore fu più tenace che altrove,
ma si trovò a scontrarsi con la scuola dell’idealismo:
massimo esponente ne fu Georg Friedrich Hegel, che
mise al centro del suo pensiero la dialettica, considerando
la storia umana come un continuo superamento di contraddizioni, mediante
il quale si realizza il progresso; ma, a differenza dei liberali, Hegel
considerava l’agente principale di tale sviluppo non tanto l’individuo
quanto lo Stato, in cui la persona poteva realizzare gli ideali della
razionalità e della moralità: la ricerca del benessere
da parte del singolo acquista quindi validità etica in quanto
“contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli
altri”. Questa funzione preminente dello Stato, che porta
a privilegiare l’interesse generale su quello del singolo, fu
anche assimilata dal pensiero autoritario, ma vi fu una sinistra hegeliana
che, soprattutto con Marx,
diede uno sbocco rivoluzionario a questa teoria.
In Italia il pensiero liberale trovò espressione in due riviste
pubblicate a Milano e a Firenze, Il conciliatore fondato da
Federico Confalonieri e diretto da Silvio Pellico,
e Antologia, di Giampietro Vieusseux e Gino Capponi.
Malgrado il suo taglio nettamente moderato, il liberalismo fu osteggiato
aspramente dal potere, che di fatto lo mise sullo stesso piano dell’altra
grande corrente, quella democratica, o radicale. I democratici presero
dal romanticismo più che l’idea di individuo quella della
nazionalità, coniugandola con i principi giacobini (e rousseauiani)
di sovranità popolare e di eguaglianza politica: fu questo nesso
a dare forza al movimento democratico, e a dare l’impulso fondamentale
ai movimenti ostili ai regimi assolutistici.
Ma fra i liberali era troppo netto il rifiuto delle idee giacobine,
e i due schieramenti non riuscirono a trovare un terreno d’intesa
comune, malgrado il tentativo di mediazione operato da due grandi pensatori:
Alexis de Tocqueville, insigne studioso della rivoluzione
americana e di quella francese, diffidava sì del regime democratico
in quanto società “di massa”, e come tale
fonte di conformismo, di annullamento dell’individualità,
però non escludeva una progressiva evoluzione del liberalismo
verso la democrazia, attraverso una graduale estensione dei diritti
politici; l’inglese John Stuart Mill accentuò questa impostazione,
ma, ormai nella seconda metà dell’800, il nemico della
borghesia non era più il dispotismo monarchico bensì il movimento socialista.
Per sfuggire alla feroce repressione molti gruppi radicali e liberali
si organizzarono in Società segrete, che si
diffusero in tutti i paesi europei ed ebbero numerosi aderenti sia
fra gli intellettuali che fra i giovani ufficiali: la più importante
fu senz’altro la Carboneria, e dalla loro attività
cospiratoria presero le mosse i tentativi insurrezionali del 1820-1
e del 1830-1: in seguito la loro influenza diminuì nettamente,
sia perché dopo il 1830 in Francia e in Inghilterra i regimi
usciti dalla rivoluzione del 1830 offrivano la possibilità di
organizzarsi legalmente, sia perché ormai era andata profilandosi
una terza forza di opposizione all’assolutismo, quella prefigurata
da Babeuf e Buonarroti (Congiura degli eguali): all’eguaglianza
politica essi avevano contrapposto quella sociale, sostenendo che le
garanzie costituzionali non potevano davvero realizzarsi senza un sostanziale
mutamento della distribuzione della ricchezza.
In realtà varie furono le correnti del nascente movimento socialista:
meno radicale del comunismo agrario teorizzato da Babeuf, il socialismo
utopistico delineato da Claude-Henry de Saint-Simon (Nuovo Cristianesimo, 1825), proponeva un patto di solidarietà
fra industriali e operai per superare gli aspetti più deteriori
del capitalismo ed eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo;
ancora più venato di utopia il progetto di Charles Fourier di
creare comunità di vita e di lavoro (falansteri) in cui finalmente
potesse realizzarsi l’armonia sociale; l’imprenditore americano
Robert Owen cercò di realizzare concretamente
questa idea, ma il fallimento dell’iniziativa lo portò
poi a trasferire il proprio impegno in Inghilterra, dove già
operavano nuclei sindacali (le prime Trade Unions)
e cooperative di consumo. Tutta questa fase del socialismo utopistico non diede risultati di rilievo, soprattutto perché troppo astratti
ne erano i presupposti: aggrapparsi all’idea che fosse una tendenza
naturale dell’uomo associarsi e praticare la solidarietà,
e che fosse quindi sufficiente proclamare questo principio affinché
esso potesse realizzarsi, era evidentemente troppo in contrasto con
una società industriale in formazione e nella quale conflitti,
egoismi, arretratezza culturale, erano ostacoli difficilmente superabili
con una semplice ottica illuministica. Grande fu il ruolo di questi
precursori, ma, dopo il 1848, fu solo il socialismo
scientifico, basato sull’analisi concreta della realtà
concreta, a far uscire le istanze di liberazione degli uomini dal vago
ambito filosofico e a organizzarle in movimento di massa.
La Chiesa cattolica esercitò una funzione determinante
nell’opera restauratrice (e non a caso il romanticismo conservatore
puntò a una forte riscoperta dei valori religiosi), ma anche
al suo interno agirono forze orientate in qualche modo al progresso,
consapevoli che l’irrigidimento su posizioni reazionarie poteva
favorire la rivolta anticlericale: in questo ambito del cattolicesimo
liberale ebbero un ruolo importante nella cultura italiana Antonio Rosmini,
Vincenzo Gioberti e lo stesso Alessandro Manzoni.
Ancora più sensibile alle suggestioni liberali fu il mondo religioso
del cristianesimo riformato: in Inghilterra la spinta al rinnovamento
veniva dai settori del clero più legati agli ambienti operai
e riacquistò vigore il metodismo predicato a metà ‘700
da John Wesley, da cui poi si svilupparono varie confessioni diffusesi
largamente anche negli Stati Uniti. In tutti i paesi protestanti, comunque,
ebbe un notevole seguito il pietismo religioso, che tendeva a mettere
in pratica le idee umanitaristiche dell’illuminismo, e uno dei
principali effetti di questo movimento fu appunto l’abolizione
della schiavitù, decisa dapprima in Inghilterra
e in seguito negli altri paesi occidentali.
Ecco, quindi, che la situazione politico-culturale europea non era affatto
quella, bloccata e immutabile, prospettata dal patto di solidarietà
fra le grandi potenze, ma partì dalle colonie il primo segnale,
con i movimenti di liberazione nazionali dell’America Latina che
misero in crisi il dominio imperiale di Spagna e Portogallo: inevitabile
che questi paesi al loro stesso interno fossero investiti dai fermenti
di rivolta (1820-1), che toccarono anche l’Italia
e la Grecia, fino al tentativo dei decabristi in Russia. Una seconda
fase dei moti (1830-4) ebbe l’epicentro in Francia
ma coinvolse gran parte dell’Europa.
Ai primi dell’800 la popolazione delle colonie spagnole raggiungeva i 17 milioni, di cui la metà indios e poi meticci, neri, bianchi e creoli (bianchi nati in America): se
quest’ultimi avevano in mano il potere economico (piantagioni
di caffè e cotone, miniere, commercio), erano invece i funzionari
provenienti direttamente da Madrid che gestivano l’amministrazione
pubblica, ben difendendo gli interessi fiscali e il regime di monopolio
della madrepatria; a questo conflitto strettamente economico, analogo
a quello determinatosi nelle colonie inglesi cinquant’anni prima,
che peraltro s’innestava in un clima di forte ribellione delle
popolazioni indigene sfruttate (celebre la rivolta peruviana del 1780
guidata da Tupac Amaru), si aggiunsero motivi di ordine
politico e ideale, anche grazie all’influenza degli intellettuali
che avevano come modelli la rivoluzione nordamericana e quella francese.
Durante l’invasione napoleonica del 1808 si ebbe la caduta della
corona di Spagna, e questo ovviamente favorì
molto le spinte indipendentistiche delle colonie, a partire dal Venezuela:
nel luglio 1811 la Giunta municipale di Caracas guidata da Francisco
Miranda proclamò l’indipendenza, dando il via a una guerra
generalizzata; dopo una prima fase di insuccessi, il movimento guidato
da José San Martìn in Argentina, Bernard O‘ Higgins
in Cile e Simon Bolivar in Venezuela, riuscì
a radicarsi diffusamente, a consolidarsi e a sconfiggere ripetutamente
gli spagnoli; Bolivar arrivò addirittura a fondare gli Stati
Uniti della Colombia, comprendenti anche Venezuela ed Ecuador, ma questo
ambizioso progetto federativo ed altri analoghi (è del 1821 la
proclamazione della Repubblica delle Province unite dell’America
Centrale: Costarica, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Salvador) naufragarono
poi sulla spinta degli interessi particolaristici delle borghesie locali.
Fu proprio dai contrasti fra i vari gruppi delle borghesie nazionali
che si aprì in quasi tutto il continente un lungo e confuso periodo
di lotte intestine, a cui appunto lo stesso Garibaldi partecipò.
Un percorso differente seguì il Messico, dove
le rivolte contadine di indios e meticci impaurirono molto
la borghesia nazionale, che preferì in un primo tempo allearsi
con la Spagna, salvo poi, nel 1822, proclamare l’indipendenza;
il regime liberale proclamò l’abolizione della
schiavitù e questo provocò la reazione dei grandi
proprietari terrieri del nord del paese, che, appoggiati dagli Stati
Uniti, diedero vita a un movimento secessionista: di qui la guerra fra
i due paesi, conclusasi nel 1848 con l’annessione del Texas agli USA.
Avvenne invece pacificamente la separazione dalla madrepatria da parte
del Brasile: andatovi in esilio dopo l’invasione
francese, al suo ritorno in Portogallo il re lasciò sul posto
come reggente il figlio don Pedro, che nel 1822 si fece proclamare imperatore,
promulgando una Costituzione di impianto liberale che di fatto riuscì
a prevenire un movimento rivoluzionario repubblicano.
In realtà il buon esito di questo processo indipendentistico
a livello continentale ebbe fra le sue condizioni anche due importanti
fattori internazionali: l’interesse dell’Inghilterra nel
veder ridimensionata l’influenza di Spagna e Portogallo, prendendone
il posto come leadership commerciale, e la cosiddetta dottrina
Monroe, enunciata nel 1823 dal Presidente degli USA, secondo
la quale le potenze europee non potevano più vantare diritti
sulle Americhe, né tantomeno impegnarsi militarmente in quelle
zone, lasciandole di fatto sotto l’influenza statunitense.
In Europa dopo le guerre napoleoniche vi fu un gravissimo calo della
produzione alimentare e la diminuzione della capacità di consumo
da parte delle famiglie provocò una forte contrazione del mercato
interno, rendendo impossibile per le industrie (in particolare quella
tessile) smaltire la propria produzione: ancora una volta, dunque, i
fattori economici sono elemento decisivo nei sommovimenti politici,
e in questo ambito ebbero notevole fortuna le iniziative cospirative
delle Società segrete. La Carboneria, in particolare, riuscì
a costruire una rete a livello europeo con lo scopo di avviare un movimento
rivoluzionario che coinvolgesse contemporaneamente tutti i paesi, come
condizione per impedire alla Santa Alleanza di concentrare la reazione
su un singolo focolaio.
Questa strategia, peraltro assai acuta, negli anni ‘20 non ebbe
successo, perché le forze della reazione erano ancora troppo
forti. In Germania, dove pure la resistenza antinapoleonica
aveva assunto un forte carattere liberale, la repressione di Metternich
fu durissima e impedì qualsiasi cambiamento; e analogamente avvenne
in Prussia.
In Francia le posizioni di timida apertura costituzionale
di Luigi XVIII furono contrastate dagli ultrarealisti (di qui l’espressione
più realisti del re), in maggioranza alla Camera, che scatenarono
il terrore bianco e costrinsero il re a sciogliere il parlamento: l’opposizione
liberale guidata da Benjamin Constant poté in qualche modo esprimersi
alla luce del sole, ma il riacutizzarsi della lotta politica portò
a una nuova svolta a destra e nel 1820 fu formato un governo che stroncò
qualsiasi tentativo insurrezionale e seguì una politica assai
vicina agli ultras.
Neppure l’Inghilterra, o meglio, il Regno Unito,
dove il sistema costituzionale era consolidato, riuscì ad evitare
un aspro scontro politico, che però si svolse a un livello più
alto, focalizzandosi sull’esigenza di mutare il sistema elettorale,
che premiava la rappresentanza politica dei centri rurali, e quindi
dei grandi proprietari terrieri, a scapito di quella urbana, e cioè
della borghesia imprenditoriale. Anima del riformismo inglese fu il
filosofo John Bentham, la cui dottrina dell’utilitarismo diede una nuova base logica e morale ai principi illuministici, e il
movimento poté svilupparsi tramite le numerose associazioni politiche
e culturali da tempo formatesi nel paese; ma la classe dirigente inglese
era ossessivamente antigiacobina e anche di fronte a rivendicazioni
tutto sommato moderate non esitò ad avviare una vera e propria
caccia alle streghe: nel 1818 fu soppresso l’habeas
corpus ed emanati i Six Acts che vietavano ogni
forma di associazione politica e sottoponevano la stampa a rigorosa
censura.
In Spagna e in Italia la forte penetrazione delle società segrete
nell’esercito riuscì, almeno temporaneamente, a produrre
esiti diversi. Il venir meno delle entrate provenienti dalle colonie
provocò un’aspra crisi economica, e l’impossibilità
da parte del governo di pagare gli stipendi ai propri dipendenti fu
il pretesto che portò (1820) alla sollevazione della guarnigione
di Cadice e poi degli altri reparti: ciò costrinse il re a rimettere
in vigore la Costituzione già promulgata nel 1812 e il governo
ad approvare alcune misure contro i privilegi ecclesiastici e feudali.
In Italia, nel regno di Napoli, la rivoluzione del
luglio 1820, guidata dal generale Guglielmo Pepe, vide la partecipazione
di numerosi ufficiali aderenti alla Carboneria (e anche questo ne favorì
molto il successo, diversamente da quanto era accaduto nel 1799) e costrinse
il re Ferdinando I ad adottare una Costituzione simile a quella spagnola
del 1812. Subito dopo scoppiò anche in Sicilia un’insurrezione,
che però aveva una forte tendenza separatista, tesa cioè
a staccare l’isola da Napoli, e questo costrinse il nuovo governo
liberale napoletano a stroncare con la forza la rivolta.
Anche se la Carboneria italiana non aveva un programma comune a tutte
le regioni italiane, certamente i fatti i Napoli contribuirono in modo
decisivo a dar maggior vigore all’iniziativa liberale nell’Italia
settentrionale, ma il governo austriaco riuscì a prevenire qualsiasi
moto, arrestando i principali intellettuali raccolti intorno al Conciliatore:
tra questi Piero Maroncelli e Silvio Pellico, che scontarono dieci anni
di carcere nella fortezza dello Spielberg, dove appunto
Pellico scrisse Le mie prigioni. La repressione non riuscì
tuttavia a stroncare il movimento, che al contrario si rafforzò,
e sotto la guida di Federico Confalonieri elaborò un programma
che prevedeva l’unificazione del Lombardo-Veneto e del Piemonte
in una monarchia sabauda di tipo costituzionale.
Anche Confalonieri venne arrestato, e il centro della lotta si spostò
in Piemonte, dove nel marzo del 1821, ad Alessandria, si avviò
un moto insurrezionale. In realtà nel regno di Sardegna la restaurazione
seguita al crollo di Napoleone era stata addirittura più aspra
che altrove e il re Vittorio Emanuele I si era fatto interprete delle
istanze più retrive dell’aristocrazia; una certa apertura
del principe ereditario, Carlo Alberto, verso le idee
liberali, spinse sia i gruppi moderati di Santorre di Santarosa sia
quelli radicali legati alla Carboneria, a tentare un accordo con lui,
ma Carlo Alberto mantenne sempre un atteggiamento a dir poco ambiguo,
oscillando tra le ipotesi di rinnovamento e la paura di non pregiudicare
il proprio destino personale. Infatti, quando dopo l’insurrezione
di Alessandria e di altre zone, Vittorio Emanuele abdicò a favore
del fratello Carlo Felice e nominò reggente il figlio Carlo Alberto,
costui dapprima cedette alle pressioni liberali concedendo lo Statuto,
una Costituzione di tipo spagnolo, ma subito dopo, sconfessato dallo
zio, di fatto si defilò dallo scontro: che nel frattempo si era
esteso anche alla Lombardia, dove invano i patrioti attesero l’intervento
armato piemontese (a questa speranza è dedicata l’ode manzoniana Marzo 1821), e che si concluse con l’intervento delle
truppe austriache e di quelle piemontesi fedeli a Carlo Felice: nell’aprile,
a Novara, gli insorti furono duramente sconfitti.
Nel frattempo il cancelliere Metternich organizzava vari congressi fra
le grandi potenze per delineare un quadro di energici interventi controrivoluzionari;
le riserve di Francia e Inghilterra a stabilire il principio in base
al quale le potenze maggiori potessero intervenire militarmente dovunque
venivano messi in pericolo i governi “legali”, non impedirono
che di fatto venisse pianificato un intervento su larga scala per stroncare
le rivoluzioni e i regimi liberali: il re Ferdinando I, malgrado gli
impegni assunti col proprio governo, chiese l’aiuto dell’Austria,
le cui truppe stroncarono la resistenza organizzata da Pepe ed entrarono
a Napoli nel marzo 1821; analogamente, due anni dopo, un esercito francese
intervenne in Spagna e abbatté il governo costituzionale.
In Russia i giovani ufficiali che avevano partecipato
alla guerra del 1812 contro Napoleone avevano scoperto l'Europa e con
essa l'arretratezza miserabile del proprio paese: di qui a trasformare
lo sdegno in rivolta il passo fu assai breve; nacquero così le
prime società segrete e l’ambizioso progetto di organizzare
la sollevazione dell'esercito non appena, nell'estate del 1826, Alessandro
I fosse stato ucciso dai congiurati di Pietroburgo; tutta una serie
di imprevisti (dalla presenza di spie fra i cospiratori all'improvvisa
dipartita, motu proprio, dello zar) mandò in fumo il
piano, e così il complotto si risolse in un fallito pronunciamento
di alcuni reggimenti della guardia, nel dicembre del 1825. Ma al programma
dei decabristi (da dicembre) si sarebbe ispirata
nei decenni successivi tutta l’intelligencija russa progressista.
In sostanza i moti del ‘20-21 furono sconfitti perché ebbero
un carattere esclusivamente politico (le rivendicazioni costituzionali)
e non riuscirono ad affrontare organicamente le questioni sociali ed
economiche, in particolare aggregando quelle masse popolari che pure
si stavano in parte allontanando dal tradizionale atteggiamento ostile
nei confronti delle idee rivoluzionarie. In ogni caso queste esperienze
ebbero il ruolo decisivo di dimostrare che i singoli regimi assolutistici
erano piuttosto fragili, e che potevano reggersi solo grazie all’intervento
delle altre potenze.
La rivoluzione ebbe un qualche successo solo in Grecia,
dove però la situazione era del tutto particolare: il paese era
sotto il dominio dell’impero ottomano, esteso
dai Balcani all’Arabia, dall’Armenia alla Tripolitania,
dove la minoranza turca governava mediante i governatori (pascià);
questa situazione di potere era naturalmente malvista sia dalle potenze
confinanti, Austria e Russia, tradizionalmente rivolte a espandersi
rispettivamente verso i Balcani e verso il Mediterraneo, sia da Francia
e Inghilterra, interessate al controllo militare del Mediterraneo e
a quello commerciale dei mercati del Vicino Oriente; e in tale delicato
e complesso gioco d’interessi questi paesi non potevano non vedere
positivamente eventuali fattori di destabilizzazione del potere turco.
Dalle prime azioni di patrioti greci a Costantinopoli la rivolta si
diffuse nella Grecia propriamente detta e il 1° gennaio 1822 fu
proclamata l’indipendenza: la tecnica del massacro (in uno di
questi fu ucciso lo stesso patriarca ortodosso di Costantinopoli) divenne
la caratteristica della spietata reazione turca, ma la resistenza greca
fu eroica, suscitò una vastissima solidarietà e coinvolse
numerosi occidentali (fra i tanti morirono Byron e Santorre di Santarosa);
l’intervento della flotta anglo-franco-russa e poi la guerra aperta
fra Turchia e Russia costrinse il sultano a cedere vari territori e
a riconoscere (1827) l’indipendenza greca, che tuttavia si limitò
solo a una parte del territorio ellenico e si realizzò attraverso
una monarchia assoluta affidata a un principe di Baviera.
In ogni caso le potenze europee contraddicevano apertamente il principio
da esse stesse stabilito, che cioè doveva essere mantenuto a
tutti i costi lo status quo, e fu evidente che la politica
e le relazioni fra stati non potevano più essere regolate unicamente
dall’ideologia reazionaria.
IL 1830
Se il 1820 aveva
rappresentato il primo segnale della non invincibilità dell’assolutismo,
il 1830 fu la svolta decisiva nella lotta fra liberali e reazionari,
perché in zone importanti dell’Europa (Francia, Belgio,
Svizzera, Inghilterra, Spagna, Portogallo) si affermarono stabilmente
regimi liberali e nell’area centro-orientale l’ancien
régime vide restringersi notevolmente il proprio spazio
di manovra, venendosi così a spezzare definitivamente il blocco
reazionario costruito al Congresso di Vienna. Se in Austria, in Prussia,
in Russia restavano sostanzialmente immutati i conflitti fra borghesia
e residui di feudalesimo, nei paesi in cui si era affermata la svolta
liberale lo scontro si spostava sulle nuove contraddizioni createsi
con lo sviluppo del capitalismo, in particolare la lotta di
classe tra il nascente proletariato e la borghesia agraria
e industriale.
Il successore di Luigi XVIII alla corona di Francia, Carlo X,
appoggiò con forza le posizioni degli ultras, restaurando
vecchi privilegi feudali, indennizzando i nobili dei danni subiti nell’89,
clericalizzando lo Stato; il suo primo ministro, Polignac, nel 1830
emanò quattro decreti che restringevano ulteriormente il diritto
di voto, annullavano la libertà di stampa, scioglievano il parlamento
ed indivano nuove elezioni: un vero e proprio tentativo di colpo di
stato, che Carlo riteneva di portare a buon fine anche contando sull’entusiasmo
popolare per la conquista dell’Algeria; ma questa
impresa, che pure costituiva la base della nuova strategia coloniale
francese in Africa, non produsse l’effetto desiderato, anche perché
la crisi economica aveva causato un fortissimo malumore nelle masse
popolari. Esse furono dirette protagoniste dell’insurrezione che
alla fine di luglio per tre giornate (“les trois glorieuses”)
sconvolse Parigi, ricordando molto da vicino il luglio dell’89;
in effetti il movimento era diretto dai liberali, ostili sia al re che
ai repubblicani, tant’è che lo sbocco della crisi fu l’incoronazione
di Luigi Filippo d’Orléans, cugino del
sovrano fuggito, definito “re dei Francesi”. L’immediato
ripristino e l’ampliamento delle garanzie costituzionali diede
il segno concreto che uno dei paesi più importanti d’Europa
aveva imboccato con decisione la strada del cambiamento e ridiede forza
e speranza ai gruppi democratici delle altre nazioni.
Il Belgio per primo seguì l’esempio francese e la rivoluzione,
unendo l’obiettivo costituzionale a quello nazionale, portò
all’indipendenza dall’Olanda; anche i cantoni della Svizzera
adottarono costituzioni liberali.
In Inghilterra i whigs, sostenitori del Parlamento,
insieme ai radicali, riaprirono la battaglia sul sistema elettorale,
e pur con obiettivi diversi (i primi puntavano a una semplice ridistribuzione
dei seggi, i secondi rivendicavano il diritto di voto anche per gli
operai industriali ed agricoli), riuscirono a sconfiggere i tories e nel 1832 fecero approvare il Reform Act: la base elettorale
fu estesa secondo lo schema proposto dai moderati, che presero ufficialmente
il nome di liberali, e si andò profilando il sistema bipartitico,
poi consolidatosi durante il regno di Vittoria (1837-1901).
Il nuovo parlamento nel 1833 abolì la schiavitù nelle colonie, ma questo provvedimento impiegò oltre 50 anni
per diventare patrimonio degli altri Stati: Francia 1848, Stati Uniti
1862-65, Olanda e Belgio 1863, Portogallo 1858-78, Brasile 1871-88.
In Spagna il fratello del re, Don Carlos, si mise alla
testa degli ultras del suo paese, considerando troppo blande
le pur non lievi misure repressive adottate dalla corona, e alla morte
di Ferdinando scoppiò una guerra civile fra i carlisti e i liberali;
analoga situazione in Portogallo, ma alla fine in entrambi
i paesi prevalsero i rinnovatori, e anche nella penisola iberica si
formarono regimi costituzionali, tali più di nome che di fatto,
comunque, visto il permanere di profondissimi squilibri sociali e di
pesanti residui feudali.
L’Italia, come altri paesi (ad esempio la Polonia),
era in una situazione assai peggiore, perché subiva la doppia
oppressione di regimi assolutistici e, direttamente o indirettamente,
stranieri; d’altra parte la divisione della penisola non favorì
certo l’iniziativa dei gruppi liberali, decimati o costretti all’esilio
(in Francia si era costituita una Giunta di liberazione di cui faceva
parte anche Filippo Buonarroti), e che oltre a tutto non erano riusciti
a superare una certa visione municipalistica e ad elaborare un forte
programma unitario; malgrado uno dei capi del movimento, Ciro Menotti,
fosse stato arrestato, l’insurrezione coinvolse comunque la parte
settentrionale dello Stato pontificio (febbraio 1821) e a Bologna si
formò addirittura un governo provvisorio che dichiarò
l’indipendenza da Roma: l’intervento austriaco fu immediato,
la giunta rivoluzionaria venne spazzata via, Menotti fucilato, e l’ordine
ripristinato.
La sconfitta delle rivoluzioni del 1830-1, o il loro
sbocco in soluzioni decisamente moderate, provocò inevitabilmente
la rottura fra radicali e liberali: dove quest’ultimi avevano
preso il potere, si affrettarono a rompere coi vecchi alleati, considerandoli,
non a torto, il nuovo nemico; dove la lotta era stata comunque perduta,
entrambi si rimproveravano a vicenda per gli errori compiuti.
Dopo il 1830 andò comunque prendendo forma quel nuovo protagonista
che già si era affacciato sulla scena politica con Babeuf, Saint-Simon
e Fourier: un movimento socialista che tese ad organizzarsi
autonomamente e a farsi espressione diretta dei braccianti agricoli
e del sempre più numeroso proletariato urbano. E ciò non
poteva che spingere la borghesia moderata su posizioni sempre meno liberali.
I radicali inglesi abbozzarono un manifesto politico (la Carta
del popolo, da cui il movimento prese il nome di cartismo)
con al centro il suffragio universale e su di esso raccolsero quasi
un milione e mezzo di firme che presentarono ai Comuni: i deputati respinsero
ogni richiesta e risposero con la repressione, che ancora per diversi
anni riuscì a imbrigliare il movimento operaio. In Francia il
maggior radicalismo delle correnti repubblicane favorì l'unità
d’azione, o addirittura la fusione, coi gruppi socialisti, e le
lotte operaie furono assai più estese, ma i tentativi di creare
un movimento unitario e ben strutturato erano ancora deboli o viziati
dalla tradizione cospirativa, come nel caso dell’organizzazione
guidata da Auguste Blanqui. Fino al 1848, insomma, la classe operaia
visse una stagione di “primitivismo politico”,
come ebbe poi a scrivere Marx, ma anche di essenziale crescita, di passaggio
da caotico arcipelago a movimento politico.
L'iniziale “intesa cordiale” fra i due nuovi grandi
Stati costituzionali, Francia e Inghilterra, divenne ben presto concorrenza
aperta nel campo internazionale, sia per determinare le rispettive zone
d’influenza nel Vicino Oriente sia per gestire le alleanze a livello
europeo; fermo restando che la politica estera degli Stati non avrebbe
quasi mai più seguito ragioni di ordine ideologico, badando piuttosto
agli specifici interessi economici o geopolitici, si può dire
che la Francia preferì una linea di buon vicinato con gli Stati
assolutistici, mentre l’Inghilterra, con l’abile regia del
ministro degli esteri lord Palmerston, puntò
decisamente a espandere l’impero, anche sfruttando l’aggressività
commerciale che derivava dal proprio impetuoso sviluppo industriale.
La guerra
dell’oppio (1840-2) fu l’episodio più
significativo di questa strategia. Avendo la Cina deciso di chiudere
le frontiere alla droga che i mercanti inglesi importavano dall’India,
l’Inghilterra non esitò a reagire militarmente, imponendo
la propria leadership commerciale in estremo Oriente e facendo
di Hong Kong la base di una formidabile rete di scambi
internazionali: la seta grezza cinese fu il perno di
tale politica, e gli inglesi invasero il mercato europeo, dando una
spinta fortissima all’industria tessile britannica e, fra l’altro,
causando danni irreparabili alla sericoltura italiana.
Contestualmente prese forma anche il nuovo tipo di presenza inglese
in India: completata la conquista del paese, alla Compagnia
delle Indie venne tolto il monopolio del commercio, e fu creata
una vera e propria amministrazione coloniale, con l’obiettivo
di “anglicizzare” la regione. Il disegno britannico era
però ancora di più largo respiro: l’Australia (utilizzata fino a poco tempo prima solo come luogo di deportazione)
e la Nuova Zelanda erano territori dalle immense potenzialità
e divennero un’utilissima valvola di sfogo per l’eccessivo
incremento demografico; così pure l’Africa del
Sud, dove la minoranza di coloni olandesi (i boeri)
venne costretta a trasferirsi in altre zone. In Canada la minoranza di lingua francese era invece più radicata e ciò
costrinse Londra a concedere al paese un’autonomia amministrativa
piuttosto marcata.
Gli Stati Uniti d’America, ancora ben lontani
dal rango di grande potenza, seguirono uno sviluppo del tutto particolare,
caratterizzato dalle varie fasi e modalità dell’espansione
verso Ovest: a pochi anni dall’indipendenza, nel 1787 il governo
dettò le regole di tale espansione, fissando le norme in base
alle quali i pionieri potevano entrare legalmente in possesso delle
terre che conquistavano e stabilendo che le varie regioni dell’Ovest,
una volta raggiunto un certo numero di abitanti, entrassero nell’Unione
come Stati con pari dignità rispetto ai tredici originari. Il
fatto che tali territori venissero in genere acquisiti dai pionieri
in virtù della loro tenacia e non della loro disponibilità
finanziaria, e perciò fossero considerati ciascuno con uguale
dignità, e soprattutto che questi fossero di origine etnica,
di fede, di culture diverse, diedero all’Unione un’impronta
democratica di fondo, probabilmente unica rispetto a qualsiasi altra
nazione. E, paradossalmente, il fatto che questo straordinario movimento
di popolo sia avvenuto a scapito delle decine di migliaia di nativi
massacrati senza pietà, non toglie nulla al fatto che gli Stati
dell’Ovest si vennero formando sotto il segno di un’eguaglianza
politica e di una libertà individuale non riscontrabili altrove.
L’enorme sviluppo, quantitativo e tecnologico, che ebbero le comunicazioni (ferrovia, telegrafo, battelli a vapore) a metà del secolo fecero
sì che questi elementi influenzassero direttamente anche la società
del Nord-Est; perlomeno dal punto di vista strettamente politico, perché
invece si accentuarono le differenziazioni in altri settori: nel Nord-Est
erano concentrate le industrie e le grandi banche, mentre al Sud prevaleva
il latifondo coltivato a cotone dagli schiavi.
Il contrasto sul problema della schiavitù non era tanto di ordine
morale, quanto di tipo strettamente economico: l’organizzazione
della fabbrica moderna rende sicuramente più conveniente per
l’imprenditore pagare un salario ad operai che poi vivono autonomamente
nei ghetti urbani, cioè acquistare la merce - lavoro per usarla
un certo numero di ore al giorno e poi disinteressarsene; la coltivazione
e la raccolta del cotone rendeva invece più conveniente per il
grande proprietario terriero disporre a tempo pieno della forza lavoro
e mantenerla con i frutti stessi della lavorazione della terra. Ma nella
prima metà dell’800 questo contrasto non fu particolarmente
acceso e furono decisamente pochi gli abolizionisti accesi (tra questi
John Brown,
in Kansas e in Virginia, che nel 1859 fu impiccato dagli schiavisti),
e la questione venne regolamentata limitando la schiavitù ai
Il dissenso vero tra Nord e Sud riguardava i dazi che si pagavano alle
frontiere dei vari Stati: gli industriali erano favorevoli al protezionismo
doganale, mentre gli agrari, la cui fortuna era legata all’esportazione
del cotone, erano per la totale libertà di scambio: questi ultimi
organizzarono una scissione del partito repubblicano e nel 1854 fondarono il partito democratico; ecco, ancora una volta,
che il conflitto d’interessi fra i vari gruppi economici è
del tutto autonomo rispetto alle questioni etiche, tant’è
che il presidente Jackson, pur essendo espressione delle esigenze convergenti
degli agricoltori schiavisti e dei pionieri, entrambi soffocati dalla
pressione delle banche del Nord-est, negli anni ‘30 diede un contributo
decisivo all’estensione dei diritti politici alla grande maggioranza
della popolazione (bianca). In questo insieme di contraddizioni sono
da ricercare i motivi dello scoppio della guerra di secessione.
BORGHESIA
E CLASSE OPERAIA
I moti europei
del 1830 avevano evidenziato che da una parte il dominio straniero era
l’ostacolo principale all’evoluzione in senso liberale e
che dall’altra il blocco reazionario era fortemente indebolito:
quindi l’elemento politico centrale dei movimenti di rivolta divenne
il nazionalismo, accentuato anche dalla delusione per lo scarso spirito
di solidarietà internazionale con cui i vari regimi liberali
avevano appoggiato le lotte per la libertà nei paesi assolutistici;
per questa ragione il nazionalismo in genere tese a
svilupparsi più sul terreno del radicalismo che del liberalismo
moderato, e coinvolgendo sempre più gli strati intellettuali.
Giuseppe Mazzini capì forse più d‘ogni
altro quanto fosse decisivo il sentimento nazionalistico e infatti pose
al centro del proprio programma l’obiettivo dell’unità
nazionale, intesa come condizione essenziale per il progresso dell’Italia:
il nuovo Stato unitario doveva nascere da una profonda rivoluzione politica
e morale a forte impronta popolare, mentre altre strade, più
moderate, non avrebbero che riproposto le vecchie soluzioni di compromesso,
lasciando immutati i caratteri di fondo della società.
Nato a Genova nel 1805, Mazzini entrò nella Carboneria a poco più di vent’anni e nella sua produzione politico-letteraria
ripropose le istanze più libertarie del romanticismo; arrestato
una prima volta nel 1830 fu costretto all’esilio in Francia, dove
entrò in contatto sia con gli ambienti vicini a Saint-Simon sia
con Filippo Buonarroti, il quale riproponeva l’idea della repubblica
unitaria già teorizzata durante l’epoca giacobina. Il dibattito
politico verteva naturalmente sulle ragioni del fallimento dei moti
del 1830, dovute in buona misura alla scarsa capacità delle forze
democratiche di mobilitare le masse popolari, e ciò metteva in
luce tutti i limiti della politica carbonara, settaria, ristretta a
gruppi elitari, condizionata dal provincialismo. Nel 1831 Mazzini rivolse
a Carlo Alberto, appena succeduto a Carlo Felice sul trono di Sardegna,
un appello a farsi promotore di un grande movimento per l’Italia
unita, e contemporaneamente fondò una nuova associazione, la Giovine Italia: il suo programma politico, fondato
sugli obiettivi dell’unità e della repubblica, era improntato
a un fortissimo sentimento di religiosità, non solo dal punto
di vista strettamente cristiano, ma anche da quello della spinta morale,
già tipica del romanticismo, che avrebbe dovuto spingere inevitabilmente
gli uomini a lottare per il progresso: ne conseguiva - a differenza
di quanto sostenevano coloro che vedevano nella Francia l’epicentro
rivoluzionario - che l’Italia, con la sua straordinaria tradizione
culturale, aveva una sorta di missione storica, in quanto il suo Risorgimento
assumeva un valore universale di liberazione per tutta l’umanità.
Dio e popolo è dunque la formula che riassume il pensiero
mazziniano: da una parte l’educazione del popolo e la sua diretta
partecipazione alla rivoluzione, dall’altra la fraternità
fra gli uomini, che di per sé escludeva nettamente qualsiasi
ipotesi di lotta di classe così come veniva teorizzata da Buonarroti
e dal nascente movimento socialista; questo rifiuto aveva senz’altro
una ragione ideologica, ma in una certa misura coglieva anche un aspetto
reale dell’Italia, dove la borghesia non aveva preso il potere,
come appunto in Francia, ed era quindi indispensabile conquistarla al
progetto di riforma politica ed economica. Rimaneva però irrisolto
il nodo della questione contadina, cioè del
superamento dei gravissimi squilibri sociali ed economici (ben difesi
da una borghesia prevalentemente agraria) che bloccavano ogni ipotesi
di sviluppo dell’Italia: di qui l’elemento di maggior debolezza
del programma mazziniano, e, soprattutto, il limite di fondo
che avrebbe caratterizzato tutto il Risorgimento e la costruzione del
nuovo Stato unitario italiano.
La Giovine Italia raccolse immediatamente larghi consensi fra gli intellettuali
e la media borghesia urbana, tanto da indurre i gruppi patriottici a
promuovere vari, e del tutto prematuri, tentativi insurrezionali (1833-4)
nel regno di Sardegna, in Toscana, a Palermo: la repressione fu immediata,
molti furono gli arrestati e lo stesso Mazzini fu condannato a morte;
la medesima sentenza fu pronunciata nei confronti di Giuseppe Garibaldi,
che partecipò attivamente ai moti di Genova,. Malgrado gli insuccessi,
Mazzini intensificò l’azione politica e nel 1834 fondò
a Berna un organismo che avrebbe dovuto estendere su scala continentale
le idee democratiche, la Giovine Europa. I limiti del programma mazziniano
sulla questione agraria furono tragicamente confermati (1844) dal tentativo
di due suoi seguaci, i fratelli Bandiera, di organizzare
una sollevazione popolare in Calabria: tutti i patrioti furono uccisi
e questo ennesimo fallimento attirò numerose critiche su Mazzini,
che si trovò anche a dover fare i conti con una forte ripresa
del movimento liberale moderato.
La seconda grande tendenza del pensiero risorgimentale ebbe il suo rilancio
con la pubblicazione di due importanti lavori politico-filosofici, il
Primato morale e civile degli italiani, di Vincenzo Gioberti,
e le Speranze d’Italia, di Cesare Balbo.
Pur rimanendo ancora molto arretrata rispetto allo sviluppo capitalistico
ormai radicatosi profondamente in Inghilterra e in Francia, anche l’Italia
risentì della rivoluzione europea delle comunicazioni, basata
soprattutto sulla ferrovia, e avvertì il bisogno, per non essere
tagliata fuori dai mercati europei, di rinnovare il sistema dei trasporti,
riformare la politica dei dazi, modernizzare la produzione industriale e agricola, rendere più efficiente il sistema fiscale.
Questo insieme di problemi era assolutamente alla base di qualsiasi
ipotesi di rinnovamento, e se vennero in parte sottovalutati dalle correnti
mazziniane, furono invece al centro delle riflessioni di quella borghesia
non reazionaria refrattaria sia al generico umanitarismo dei romantici
sia all’egualitarismo giacobino: proprio il giudizio negativo
sulla rivoluzione francese era il collante di fondo dei moderati, che
rimproveravano all’89 di aver interrotto traumaticamente l’opera
dei sovrani illuminati e di negare il grande ruolo svolto dalla Chiesa
cattolica; un forte spirito religioso, che però andava in direzione
opposta a quanto auspicava Mazzini, era del resto alla base sia di opere
letterarie come i Promessi Sposi, sia di contributi strettamente
teorici come quelli di Antonio Rosmini, di Massimo
D’Azeglio, e dei già ricordati Viesseux
e Capponi; numerosi scienziati e uomini di cultura, inoltre, intervennero
assiduamente ai dibattiti che sulle riviste e nei Congressi delle associazioni
professionali si svolgevano sui problemi dell’istruzione, delle
tecniche agrarie, dell’assistenza sociale.
Il Primato di Gioberti fu in qualche modo il manifesto programmatico
di tutta questa importante corrente culturale cattolico-liberale, sottolineando
la possibilità di realizzare drastici mutamenti politici senza
traumi rivoluzionari: una sorta di binomio fra rinnovamento e conservazione
che indicava nella confederazione fra gli Stati italiani
lo sbocco politico fondamentale, ma che tuttavia non scioglieva i due
nodi politici centrali, cioè la presenza egemone dell’Austria
su tutta la penisola e il ruolo della Chiesa; ad essa Gioberti guardava
come possibile guida del processo di riforma morale (e in questo senso
tale posizione fu definita neoguelfismo), ma l’avversione
profonda della Chiesa verso qualsiasi cambiamento (le ferrovie erano
giudicate come opera di Satana!) rese molti liberali critici su questo
punto, e indusse lo stesso Gioberti, dopo il 1848, ad abbandonare le
precedenti posizioni e ad avvicinarsi notevolmente ai democratici. Nelle Speranze Cesare Balbo affrontò il problema dell’Austria
dando un’interpretazione moderata all’idea mazziniana della
solidarietà internazionale fra i popoli italiani, balcanici e
slavi oppressi dall’Austria, e cioè affidando gli obiettivi
indipendentistici soprattutto al gioco diplomatico fra le potenze; acutamente Balbo vide che lo smembramento dell’impero
turco avrebbe spinto l’Austria ad espandersi verso Oriente, e
in ciò vi era la forte possibilità che gli austriaci tendessero
ad abbandonare progressivamente il Lombardo-Veneto: di qui la necessità
di una riforma dei vari Stati italiani e di una loro alleanza che portasse,
sotto la guida del re di Sardegna, allo sbocco unitario. D’Azeglio,
disegnando le modifiche economiche e istituzionali necessarie, precisò
la strategia moderata basata sulla pressione dell’opinione pubblica
per modificare le Costituzioni dei vari Stati italiani, ridimensionando
ulteriormente l’originaria matrice religiosa del movimento liberale
e dandogli sempre più un’impronta laica.
All’interno dello schieramento moderato ebbe poi una funzione
assai significativa una corrente di pensiero che prendeva le mosse dalle
acute analisi che il milanese Gian Domenico Romagnosi aveva svolto sui
problemi dello sviluppo capitalistico italiano (libertà
completa dei commerci, ammodernamento degli impianti industriali e delle
infrastrutture, riforma delle strutture amministrative): dal 1839 al
1844 Carlo Cattaneo riprese organicamente questi temi
di analisi sulla sua rivista Politecnico, rendendola uno degli
strumenti culturali più vivaci e moderni di tutto il Risorgimento
e facendone il punto di riferimento di quel federalismo democratico e repubblicano che vedeva nell’Italia dei Comuni il
momento più importante della storia italiana, l’esempio
da seguire per cambiare davvero il paese.
Dove si era affermato il regime liberale, seppur in
modo differenziato nei vari paesi europei, era stato drasticamente ridimensionato
il monopolio ecclesiastico o feudale sulla terra, e questa ridistribuzione
fondiaria (che nel contempo eliminò anche antichi usi
in base ai quali i contadini poveri potevano coltivare in comune certi
appezzamenti) permise a un nuovo strato di borghesia imprenditoriale
di utilizzare l’importantissima risorsa costituita dalla terra,
investendo consistenti capitali, innovando le tecniche di produzione
(che alla fine del secolo fecero un enorme balzo in vanti con l’inizio
della meccanizzazione e dell’introduzione dei fertilizzanti chimici),
eliminando vecchi rapporti di lavoro e di gestione ed introducendo anche
nelle campagne il sistema del lavoro salariato. Gli enclosures acts emanati in Inghilterra nel 1845, che avevano liquidato sia i privilegi
feudali sia i diritti di pascolo e di semina dei contadini, beneficiarono
i grandi proprietari terrieri e diedero il via alla diffusione massiccia
dell’azienda agraria capitalistica; al tempo stesso moltissimi
contadini furono privati di ogni rapporto (sotto forma di piccola proprietà
o di contratti colonici o di diritti acquisiti) con la terra e dovettero
abbandonare la campagna, andando a ingrossare l’esercito di manodopera
indispensabile per le fabbriche. Laddove si realizzò, questo
sviluppo del capitalismo nelle campagne è in qualche modo la
diretta conseguenza della rivoluzione industriale ed è il passaggio
decisivo dei grandi mutamenti socioeconomici di metà ‘800.
A quello inglese si contrappose il modello prussiano di sviluppo capitalistico, perché non i borghesi ma gli stessi
ex feudatari (Junker) divennero i grandi proprietari, garantendo
quindi all’aristocrazia il mantenimento del predominio sociale
ed economico. Ancora diverso il caso della Francia, dove la partecipazione
contadina alla rivoluzione dell’89 consentì che a fianco
della grande azienda capitalistica permanessero in modo diffuso piccole
e medie proprietà. In Spagna e in Italia meridionale queste trasformazioni
furono ridottissime, e la proprietà terriera rimase in mano ai
vecchi latifondisti, disinteressati all’innovazione; e così
pure in Irlanda, dove, con qualche decennio di anticipo rispetto all’Italia,
si avviò un massiccio flusso migratorio verso
il nord America.
Se dunque l’economia europea restava prevalentemente di tipo agricolo,
la rivoluzione industriale aveva ormai gettato in modo irreversibile
le basi per lo sviluppo della grande fabbrica, e si andava ormai profilando
un vero e proprio sistema industriale, caratterizzato
dalla possibilità per le aziende di attingere alla forza lavoro
concentratasi nelle grandi città, dalla modernizzazione e capillarità
della rete bancaria, dai rapporti sempre più stretti fra industria
e agricoltura per la produzione alimentare, dalla facilità dei
trasporti, dall’aumento dei prodotti coloniali da sottoporre a
trasformazione o lavorazione. Comunque il fattore propulsivo fondamentale
del capitalismo e della sua capacità di superare le crisi politiche
ed economiche che di volta in volta si presentarono, fu la stessa
integrazione fra i settori industriali: più seta e cotone
arrivavano dalle colonie, più cresceva la domanda di abbigliamento,
e più fabbriche tessili sorgevano più aumentava la richiesta
di macchine tessili; e più prodotti venivano commercializzati
più era essenziale sviluppare le ferrovie: questi ed altri sistemi
di interazione portarono rapidamente l’industria metalmeccanica
e siderurgica, che producevano telai, locomotive, macchine, rotaie,
ecc., ad essere la punta avanzata di tutto il sistema.
Naturalmente i paesi che possedevano le materie prime (carbone e ferro)
si trovarono avvantaggiati rispetto agli altri, ma occorrevano anche
altri fattori per far parte integrante del mercato industriale: capitali,
manodopera, leggi moderne, inventiva, e i paesi che non furono in grado
di competere su tutti questi fronti si trovarono ad essere sempre più
distanziati dagli altri, restando sottosviluppati: a questo divario,
che Marx chiamò “sviluppo ineguale del capitalismo”,
sono riconducibili molti dei conflitti e degli squilibri che segnarono
la storia mondiale in quel secolo.
Un’altra caratteristica di fondo del nuovo sistema capitalistico
era il superamento del sistema di gestione aziendale basato sulla capacità
di autofinanziamento del proprietario e sulla proprietà familiare:
aumentando vertiginosamente la necessità di far fronte a nuovi
e consistenti investimenti, la possibilità di accedere con rapidità
ai capitali necessari divenne essenziale, e di qui il ruolo primario
assunto dal capitale finanziario, cioè dalle banche, che garantivano
il credito necessario, facevano fruttare il denaro dei risparmiatori
investendolo nelle attività industriali di maggior successo,
e spesso diventavano esse stesse promotrici o proprietarie di tali attività;
le nuove leggi sulle società per azioni consentirono poi da una
parte di distribuire i propri investimenti con maggior efficacia e minor
rischio (perché in caso di fallimento l’azionista rispondeva
solo per l’importo delle azioni possedute), e dall’altra
di impegnarsi in sfide economiche particolarmente impegnative acquisendo
nuovi soci nella propria attività.
La borghesia capitalistica era dunque rapidamente diventata
la classe trainante dal punto di vista dello sviluppo, e così
come aveva rovesciato a proprio favore i rapporti economici fino a poco
tempo prima gestiti dalla nobiltà, analogamente tendeva a fare
sul piano del ruolo sociale e politico: da un lato rivendicando per
sé l’autorevolezza e il peso che le derivavano dai traguardi
raggiunti non per virtù divina o di sangue ma attraverso il lavoro
e il rischio, dall’altro puntando a gestire direttamente il potere:
ma veniva rifiutato qualsiasi tentativo d’ingerenza nell’economia
da parte dello Stato, che doveva rigorosamente limitarsi a garantire
la condizione primaria dello sviluppo, cioè il libero dispiegarsi
dell’iniziativa privata, rimuovendo tutti gli ostacoli che ad
essa potevano frapporsi. E tra questi, naturalmente, vi era il tentativo
della classe lavoratrice di migliorare la propria condizione.
I contadini sradicati dalle campagne che erano andati a formare il nuovo
strato sociale del proletariato urbano, non avevano altro mezzo di sussistenza
che vendere l’unica cosa che possedevano, la propria forza-lavoro,
nell’ambito di un sistema basato su un'attività dequalificata
e ripetitiva, e sulla ferrea disciplina; a queste dure condizioni si
sommava il più delle volte l’impossibilità di contrattare
il salario, perché la grande massa di disoccupati consentiva
al padrone di scegliere fra coloro (anche bambini) che si offrivano
per la paga più bassa e per l’orario di lavoro più
lungo. Ma non era solo il sistema della fabbrica in sé ad essere
disumano, perché la vita stessa degli operai avveniva in situazioni
intollerabili: abitazioni fatiscenti, sottoalimentazione, analfabetismo,
elevata mortalità. Sia nella saggistica (Friedrich Engels,
La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845) che
nella letteratura (Balzac, Dickens)
cominciò ad essere denunciato questo terribile stato di cose,
ma la violenta opposizione della borghesia e dei suoi rappresentanti
politici impediva qualsiasi mutamento. Solo nel 1844, in Inghilterra,
venne approvata una legge che portava a 12 ore e poi a 10 il limite
massimo di ore per le donne e i fanciulli, anche se
l’applicazione di questa norma rimase in buona misura disattesa.
A fronte di queste condizioni di lavoro e di vita, fra gli operai in
qualche misura si creò spontaneamente un senso di solidarietà,
ma i primi tentativi di organizzazione e di rivolta si realizzarono
in modi ingenui e limitati; così scriverà uno dei grandi
teorici del movimento operaio, Karl Kautsky, ripreso
poi da Lenin in una delle sue opere più celebri, Che fare?:
“La coscienza socialista contemporanea non può sorgere
che sulla base di profonde cognizioni scientifiche. Il detentore della
scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi;
anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni
membri di questo ceto, ed è stato da essi comunicato ai proletari
più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i quali in seguito
lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni
lo permettono. La coscienza socialista è quindi un elemento importato
nella lotta di classe del proletariato dall’esterno e non qualche
cosa che sorge spontaneamente.” Furono appunto i generosi
tentativi dei primi teorici del socialismo utopistico a creare le premesse
affinché i lavoratori stessi praticassero forme organizzative
e di lotta basate su una valutazione concreta della realtà e
su una strategia politica di medio periodo.
Le prime associazioni di mestiere, cioè di categoria, furono
le Trade unions inglesi, da cui poi partì il
tentativo di costruire sia sindacati nazionali di categoria sia organismi
generali di coordinamento fra i vari settori: e si deve appunto a questi
nuclei e al movimento cartista la conquista del Ten hours
Bill, la legge che limitava a 10 ore la giornata lavorativa
degli adulti.
In Francia il movimento ebbe un carattere più marcatamente politico,
ma proprio per questo si sviluppò in forme cospirative che non
potevano necessariamente avere contatti di massa con gli ambienti operai:
rifacendosi al comunismo babuvista, senza tuttavia superarne i limiti
propri delle società segrete, Auguste Blanqui (da non confondersi con Louis Blanc, che proprio negli stessi anni proponeva
le idee socialiste in una chiave decisamente più moderata) svolse
un’intensa attività organizzativa e di elaborazione politica,
sfociata nella disastrosa e minoritaria insurrezione del 1839; affiliata
all’organizzazione di Blanqui, la Società delle stagioni,
era un’altra associazione rivoluzionaria formata da profughi tedeschi
a Parigi, la Lega dei giusti, che, dopo aver partecipato all’insurrezione
fallita, si trasferì a Londra, dove riorganizzò le proprie
file e prese il nome di Lega dei comunisti: essendo
riuscita a creare propri nuclei organizzati in varie città d’Europa,
la Lega divenne una robusta organizzazione internazionale e nel 1848
si diede una vera e propria struttura di partito. A redigerne il programma
furono chiamati Friedrich Engels e Karl Marx, e il Manifesto
del partito comunista divenne uno dei più celebri
documenti politici della storia, oltre che uno dei più riusciti
esempi di divulgazione.
IL
1848
“Uno
spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”:
con queste parole inizia appunto il Manifesto, e infatti l’idea
della rivoluzione non era più l’utopia di qualche intellettuale,
ma era diventata un problema politico all’ordine del giorno, che
preoccupava non poco sovrani, capitalisti e moderati.
In realtà le forze reazionarie vedevano in ogni protesta e rivendicazione,
anche le più limitate, lo spettro della sovversione comunista,
senza cogliere invece la complessità di fenomeni che variavano
molto da paese a paese, e che andavano da semplici richieste sindacali
sul salario e sull’orario a istanze di indipendenza nazionale,
da moderati disegni di riforma costituzionale a veri e propri progetti
rivoluzionari di stampo socialista. Il fatto che le stesse agitazioni
operaie sovente avessero il carattere di rifiuto dell’industrializzazione
(addirittura ricordando le agitazioni luddiste), sta a indicare che
i fermenti di rivolta erano diretti, più che verso la borghesia,
contro il vecchio ordine feudale o i suoi residui ancora ben presenti
anche nelle società liberali. Negli Stati tedeschi, in Polonia,
in Italia, in Austria, prevaleva naturalmente la rivendicazione nazionale,
altrove l’esigenza di dare concreta attuazione ai principi affermati
nelle costituzioni.
Al di là di queste sostanziali differenze, vi fu un elemento
comune a tutte le rivoluzioni del ‘48, e cioè il ruolo
finalmente di primo piano svolto dalle correnti democratiche,
che ovunque presero l’iniziativa, sovente riuscendo ad avere un
ruolo egemone.
La crisi economica che attraversò l’Europa fra il 1845
e il 1847, dovuta in buona misura ai cattivi raccolti, creò un
profondo malcontento sia tra i lavoratori che tra le classi medie, e
per certi aspetti anche fra la borghesia industriale: è questa
la premessa della rivoluzione del 1848, da cui, significativamente,
rimasero immuni i due poli opposti dello sviluppo, l’Inghilterra
liberale e industrializzata e il paese più arretrato, la Russia:
qui non diminuirono le disperate rivolte contadine, che però
non riuscirono a trovare una loro unità e uno sbocco politico,
mentre l’opposizione all’autocrazia zarista rimase ristretta
all’intelligencija liberale, a sua volta incapace di creare un
collegamento col popolo: e da questo punto di vista non furono certo
sufficienti grandi esperienze di letteratura “impegnata”,
ad opera di Lermontov, Puskin, e soprattutto di Gogol
(Le anime morte, 1842).
La scintilla della rivoluzione scoppiò in Italia: nel 1846 era
stato eletto un pontefice, Pio IX, che manifestò
delle caute aperture riformistiche, divenendo subito un punto di riferimento,
altamente simbolico, per tutte le forze liberali e democratiche; la
pubblicazione della Proposta di un programma per l’opinione
nazionale italiana, di Massimo D’Azeglio, ridiede slancio
all’opinione pubblica liberale, che fece del libro il proprio
manifesto politico, ma fu l’introduzione da parte del papa della libertà di stampa nello Stato pontificio a dare
una diffusa sensazione che fossero ormai maturi i tempi del grande cambiamento.
Sotto l’influenza di questo clima, anche in altri Stati, come
la Toscana, i sovrani fecero varie concessioni politiche, e lo stesso
Carlo Alberto permise la libertà di stampa. Alla grande attesa
non corrisposero però iniziative costituzionali concrete, e di
fronte alle titubanze dei moderati i democratici presero decisamente
l’iniziativa: vi furono numerose manifestazioni antiaustriache
a Genova, a Venezia, in Lombardia, in Toscana, a Napoli, ma fu l’anello
debole della catena reazionaria a spezzarsi, con l’insurrezione
di Palermo del gennaio 1848, guidata da Rosolino Pilo;
il successo conseguito con la formazione di un governo provvisorio fece
sì che la rivolta si estendesse in tutto il Mezzogiorno, costringendo
il re Ferdinando II a concedere la Costituzione. Sotto la forte spinta
dell’opinione pubblica, e per prevenire rotture rivoluzionarie,
anche Carlo Alberto e il granduca di Toscana concessero la carta costituzionale.
Nel frattempo la piccola borghesia francese e i lavoratori erano diventati
sempre più insofferenti verso lo strapotere della grande borghesia,
che tuttavia in parlamento era all’opposizione rispetto alle forze
più reazionarie: questo paradosso pose in primo piano l’esigenza
della riforma elettorale, che divenne l’obiettivo prioritario
dei repubblicani e dei socialisti moderati di Louis Blanc: il governo
reagì con miope intransigenza e inviò contro una manifestazione
popolare la Guardia nazionale, che però si schierò dalla
parte degli insorti; Luigi Filippo cercò di ricorrere ai ripari
sostituendo il primo ministro, ma ormai la rivoluzione era dilagata,
e il 24 febbraio 1848 Parigi era in mano degli insorti
guidati da repubblicani e socialisti. Il governo provvisorio diretto
da Alphonse Lamartine proclamò la repubblica,
introdusse il suffragio universale maschile, abolì
la pena di morte e la schiavitù, portò la giornata lavorativa
a 10 ore; altrettanto importante fu il solenne impegno del governo a
garantire il diritto al lavoro, che si tradusse immediatamente nella
creazione di officine statali (ateliers nationaux) per arginare
la disoccupazione: sembrava davvero che dopo la delusione del 1830 i
lavoratori avessero potuto influenzare sostanzialmente le scelte politiche,
ma la Commissione governativa composta anche dai rappresentanti sindacali
si rivelò ben presto inefficace, e i vari provvedimenti per il
lavoro furono ritirati o resi ininfluenti; la destra aprì una
furibonda campagna antisocialista e alle elezioni di aprile la maggioranza
fu conquistata dai moderati. La “repubblica del lavoro”
era finita prima di cominciare, ma di fronte all’ulteriore ridimensionamento
dei provvedimenti sociali nel giugno il proletariato parigino insorse
nuovamente: era l’occasione che molti aspettavano per la resa
dei conti finale col “pericolo rosso” e l’esercito
stroncò la rivolta facendo migliaia di morti; la fucilazione
senza processo, dopo la fine degli scontri, di oltre tremila insorti,
segnò che la reazione aveva vinto in maniera schiacciante.
Nel marzo era frattanto insorta anche Vienna, e Metternich
dovette fuggire: fu il segnale per le nazionalità oppresse dall’Austria,
e sia a Budapest, sotto la guida di Lajos Kossuth,
che a Praga si costituirono governi costituzionali che diedero avvio
a varie riforme. La pressione popolare e l’insurrezione di Berlino costrinsero anche il re di Prussia Guglielmo IV a convocare un’assemblea
costituente, che emanò subito tutta una serie di provvedimenti
liberali (dalla libertà di stampa al suffragio universale maschile);
negli altri Stati tedeschi e nella stessa Prussia la rivoluzione non
affrontò solo la questione costituzionale ma pose con forza anche
il problema dell’unità nazionale, e venne convocata un‘assemblea
di tutte le popolazioni tedesche, il Parlamento di Francoforte, per
elaborare un progetto di nuovo Stato unitario. Ma ciò che sarebbe
divenuto realtà appena pochi anni dopo (1871), sembrò
allora troppo azzardato e il re di Prussia non accolse con favore l’idea,
e anzi l’anno successivo sciolse con la forza tale organismo.
Radetzky
La caduta di Metternich fu il segnale per i patrioti italiani e nel
marzo 1848 insorsero Venezia, dove fu restaurata la
Repubblica veneta, sotto la guida di Daniele Manin, e Milano,
dove si costituì un consiglio di guerra presieduto da Carlo Cattaneo
che per cinque giornate fronteggiò le truppe
austriache del generale Radetzky, poi costrette a rifugiarsi
nelle fortezze del cosiddetto quadrilatero (Mantova, Peschiera, Verona
e Legnago). Mentre anche a Parma e a Lucca i sovrani furono cacciati,
i liberali milanesi, preoccupati che l’insurrezione assumesse
una marcata tendenza democratica, rivolsero insistenti appelli a Carlo
Alberto affinché intervenisse militarmente, e il re di Sardegna,
anche riesumando le vecchie aspirazioni sabaude sulla Lombardia, dichiarò
guerra all’Austria.
La cosiddetta prima guerra d’indipendenza creò
un fortissimo clima unitario fra le varie componenti patriottiche: Mazzini,
giunto prontamente a Milano, rinunciò a qualsiasi rivendicazione
repubblicana, e Cattaneo sostenne la necessità di rinviare qualsiasi
discussione sul futuro assetto dei territori italiani e di concentrare
ogni sforzo nella guerra; oltre ai volontari che accorrevano da tutta
Italia, la pressione popolare costrinse vari Stati (Roma, Toscana, Napoli)
a inviare contingenti di truppe, che, come nel caso di Guglielmo Pepe,
furono messe al comando di generali liberali.
L’incertezza politico-militare dei Piemontesi, che ad esempio
rifiutarono l’offerta di Garibaldi di partecipare direttamente
alla guerra, consentì a Radetzky di far ritirare le proprie truppe
senza perdite e di preparare la controffensiva; anche se i vari governi
provvisori si pronunciarono per la fusione col Piemonte, la svolta decisiva
si ebbe quando il papa chiuse la parentesi “neoguelfa”
e ritirò le proprie truppe, subito imitato dal Granduca di Toscana
e dal re di Napoli, che nel frattempo aveva messo in atto un colpo di
stato: a Goito gli italiani vinsero una battaglia, conquistando la fortezza
di Peschiera, e a Curtatone e Montanara i volontari toscani conseguirono
un importante successo, ma Radetzky ottenne a Custoza la vittoria decisiva, obbligando Carlo Alberto a firmare (9 agosto)
l’armistizio. Così Antonio Gramsci spiegò le cause della disfatta: “La politica incerta,
ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra
piemontesi fu la ragione principale della sconfitta; essi furono di
un’astuzia meschina, furono la causa del ritirarsi degli eserciti
degli altri Stati italiani, per aver troppo presto mostrato di volere
l’espansionismo piemontese e non una confederazione italiana;
essi non favorirono, ma osteggiarono il movimento dei volontari; essi,
insomma, volevano che armati e vittoriosi fossero solo i generali piemontesi,
inetti al comando di una guerra tanto difficile.”
La rivoluzione parigina era stata stroncata appena un mese prima ed
era stato il segnale generale del riflusso rivoluzionario e della rivincita
reazionaria. Alle elezioni di dicembre prevalse il candidato conservatore
Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone, che presto avrebbe
seguito le abitudini di famiglia, scegliendo la strada del potere personale.
L’esercito austriaco bombardò Praga in giugno e dopo marciò
su Vienna, assediando la città e riconquistandola dopo alcune
settimane; il nuovo imperatore Francesco Giuseppe,
incoronato dopo l’abdicazione di Ferdinando, ripreso il controllo
della capitale puntò subito a ripristinare l’ordine in
Ungheria: per quasi un anno i patrioti ungheresi, sempre sotto la guida
di Kossuth, riuscirono a resistere, finché l’intervento
dell’esercito russo fece capitolare la città.
Dopo il colpo di stato a Napoli, la rivoluzione si esauriva in tutta
l’Italia meridionale, mentre a Roma i patrioti rilanciarono l’iniziativa,
tanto che Pio IX dovette rifugiarsi a Gaeta; nel febbraio del 1849 fu
eletta un’Assemblea costituente che proclamò la fine del
potere temporale del papa e la nascita della Repubblica romana,
alla cui guida fu chiamato un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini,
Aurelio Saffi e Carlo Armellini. L’ipotesi di un’unione
con la Toscana, il cui governo democratico era presieduto da Francesco
Guerrazzi, incontrò le forti resistenze dei moderati, finché
nel luglio anche in Toscana la reazione riuscì a prevalere e
il granduca tornò sul trono.
Solo Roma e Venezia continuarono la rivoluzione, ma già un corpo
di spedizione francese era pronto a intervenire, perché il presidente
Luigi Bonaparte voleva conquistarsi l’appoggio dei clericali e
liquidare definitivamente l’opposizione radicale; mentre Garibaldi
combatteva più a sud contro i borbonici, battendoli ripetutamente,
i francesi assediavano Roma, che pure resisteva con fortissima tenacia,
e solo nel mese di luglio i capi militari, Garibaldi e Carlo Pisacane,
decisero che era impossibile continuare oltre: l’Assemblea costituente
decise di promulgare, prima di sciogliersi, la Costituzione che prevedeva
il suffragio universale. L’importanza della Repubblica romana
non fu solo simbolica, per l’eroismo con cui aveva combattuto,
ma soprattutto per gli atti concreti di riforma che aveva avviato, primo
fra tutti il riordino fondiario tramite l’espropriazione dei beni
ecclesiastici e la concessione delle terre ai contadini, la prima vera
e propria riforma agraria mai tentata in Italia, cioè
la base di quella rivoluzione rimasta sempre incompiuta nel nostro paese.
Dopo il crollo dell’Ungheria si capì che anche per Venezia
il destino era segnato, e, malgrado molti patrioti fossero accorsi da
altre regioni, la Repubblica dovette cedere alle truppe nemiche, alla
fame e al colera, arrendendosi alla fine di agosto.
Nel regno di Sardegna si era nel frattempo decisa la ripresa delle ostilità
verso l’Austria, e, visti gli scarsi risultati ottenuti dai generali
piemontesi, il comando delle truppe fu affidato a un generale polacco:
che però non ebbe maggior successo, perché gli austriaci
vinsero rapidamente e in modo decisivo a Novara (marzo ‘49); il
nuovo re Vittorio Emanuele II (Carlo Alberto aveva
appena abdicato) firmò un armistizio piuttosto favorevole, dato
che non comportava perdite territoriali o la revoca dello Statuto albertino.
Durante la guerra era insorta Brescia, e il patriota
Tito Speri guidò una disperata resistenza che durò dieci
giorni, al termine dei quali l’Austria aveva ripristinato l’ordine
in tutto il nord Italia.
L’UNITÀ
D’ITALIA
Il ricordo del
‘48 aveva convinto la borghesia moderata europea a rompere del
tutto con gli ambienti democratici, alleandosi di fatto con le forze
reazionarie per prevenire altri sconvolgimenti: ma gli esponenti dell’ancien
régime erano ormai definitivamente i partner più
deboli di tale alleanza, e il periodo fino al 1870 fu caratterizzato
dal compromesso con la monarchia, attraverso il quale la borghesia
moderata riuscì ad attuare il proprio disegno di potere: il
‘48, insomma, aveva decretato in Francia, in Germania e in Austria
il trionfo della borghesia capitalistica.
La Chiesa cattolica era fortemente preoccupata da questa svolta liberale,
seppur moderata, e, dopo aver constatato l’impossibilità
di rispondere al ‘48 con una restaurazione analoga a quella
del ‘15, s’impegnò a dar battaglia sul piano politico:
il conflitto fra Stato liberale e Chiesa divenne aperto prima con
il Sillabo papale del 1864, attraverso
il quale il Vaticano dichiarò l’inconciliabilità
della dottrina cristiana col progresso e col liberalismo, e poi con
un rinnovato rigore dottrinario che portò alla proclamazione
(1870) del dogma dell’infallibilità del papa. Al grande periodo
rivoluzionario seguì dunque una fase in cui la vita politica
europea fu dominata dalle diplomazie internazionali e dai suoi protagonisti:
Bismarck, Palmerston, Napoleone III,
Cavour; contemporaneamente si andarono rafforzando
le spinte nazionalistiche nei paesi slavi e balcanici, crollò
definitivamente l’impero turco, aumentò fortemente l’influenza
occidentale in India, Giappone e Cina, e gli Stati Uniti furono protagonisti
di uno straordinario sviluppo economico. Questo processo di crescita
capitalistica investì tutti i paesi, soprattutto per l’effetto
del liberismo economico che ridusse fortemente le barriere doganali;
non a caso la rete ferroviaria europea quintuplicò la propria
estensione nel giro di vent’anni.
All’inizio di questa fase storica in Francia rinacque addirittura
l’impero; la disfatta della rivoluzione del febbraio 1848 non
significò solo il fallimento delle aspirazioni popolari, ma
aprì la strada a uno sbocco decisamente autoritario: approfittando
dei contrasti fra moderati e repubblicani, il presidente Luigi Bonaparte
attuò un colpo di stato nel dicembre 1851,
sciogliendo il parlamento e preparando il terreno costituzionale che
gli permise, l’anno dopo, di farsi proclamare imperatore col
nome di Napoleone III. Dall’iniziale autoritarismo
Napoleone passò a una graduale attenzione verso le istanze
della borghesia liberale, concedendo maggiori poteri al parlamento
e arrivando persino a riconoscere il diritto degli operai ad associarsi
per scopi sindacali; questa apertura consentì da una parte
la rinascita di un’opposizione repubblicana, dall’altra
una sintonia crescente con la borghesia capitalistica, che si rese
protagonista di alcune grandi iniziative: la costruzione del canale
di Suez (1859-69) e la modernizzazione di Parigi,
che diede alla città i suoi grandi boulevards. Quando
si parla di secondo impero non ci si riferisce solo al fatto cronologico,
ma anche al tentativo di Napoleone III di ripercorrere in qualche
modo la strada seguita dal predecessore, rompendo gli equilibri scaturiti
dal Congresso di Vienna e ridando alla Francia quella supremazia di
cui era stata privata dalle altre potenze. Questo disegno fu in parte
agevolato dalle tensioni fra Austria e Prussia, in concorrenza per
l’egemonia sulla regione di lingua tedesca, e dalla comparsa
sulla scena politica internazionale di un nuovo protagonista, il piccolo
regno di Sardegna che sarebbe diventato regno d‘Italia.
La prima guerra d’indipendenza italiana si risolse in un rafforzamento
dell’Austria, che in pratica controllava, direttamente o indirettamente
tutta l’Italia, fatta eccezione per il regno delle Due Sicilie
e quello di Sardegna. Il primo aveva visto una ripresa integrale dell’assolutismo,
che bloccò qualsiasi progresso politico, economico e sociale,
e in questo immobilismo si rivelò la fragilità del regime,
tanto che la “questione napoletana”
attirò l’attenzione dei molti che ipotizzavano di riuscire
a riprendere il cammino unitario, magari proprio a partire da questo
anello debole della catena.
Il Piemonte aveva conservato il suo ordinamento costituzionale, anche
se non esitò a reprimere con forza l’insurrezione di
Genova del ‘49; il fatto che alla Camera ci fosse una preoccupante
maggioranza liberal-progressista indusse il re a indire nuove elezioni,
proclamando che lo Statuto si poteva salvare solo ridimensionando
le forze antimonarchiche: i risultati elettorali lo premiarono, e
il primo ministro Massimo D’Azeglio diede il
segno di voler effettivamente riprendere, pur con la dovuta cautela,
la strada delle riforme; nel 1850 furono approvate varie leggi che
limitavano i privilegi ecclesiastici, suscitando le violente proteste
del clero e degli aristocratici.
Alla nobiltà che guardava invece con simpatia la borghesia
liberale, apparteneva il nuovo ministro dell’agricoltura, Camillo
Benso di Cavour: aveva studiato con attenzione i problemi economici
e si era convinto che lo sviluppo capitalistico esigeva decise misure
di rinnovamento, dato che il pieno dispiegarsi del libero scambio,
condizione essenziale del progresso, poteva realizzarsi solo nell’ambito
di società prive dei vincoli assolutistici e dei residui feudali;
Cavour vedeva l’indipendenza italiana come la naturale cornice
di questo sviluppo, restando comunque del tutto ostile al pensiero
radicale, e da questa sua posizione nettamente centrista si rivelò
come l’esponente politico moderato più abile. Egli capì
perfettamente che le posizioni democratiche non si potevano liquidare
con la forza o tenere semplicemente ai margini del dibattito politico,
quindi si pose subito il problema di dividere il fronte avversario,
allacciando rapporti sempre più cordiali con la sinistra moderata,
come appunto avvenne in occasione dell’ approvazione di vari
trattati commerciali con i paesi più industrializzati, quando
la sinistra parlamentare votò le proposte di Cavour. Ciò
produsse addirittura una nuova maggioranza (che i conservatori definirono
sprezzantemente “connubio”), il che era precisamente
l’obiettivo di Cavour, nominato primo ministro alla fine del
1852 al posto di D’Azeglio, messo in minoranza dalla destra
sull’introduzione del matrimonio civile.
Nelle file del movimento democratico europeo infuriava nel frattempo
la polemica sulle ragioni di quanto era accaduto nel ‘48. Mazzini
sosteneva che si era avuta la dimostrazione della maturità
dei popoli rispetto alla questione nazionale e che la causa del prevalere
della reazione fosse da ricercarsi nella frattura creata nel campo
rivoluzionario dalle correnti socialiste: occorreva dunque bandire
decisamente il concetto stesso di lotta di classe, fattore di divisione
e d’impoverimento morale, e su questa base fondò a Londra
(1850) il Comitato centrale democratico europeo; Mazzini era anche
convinto che la spinta rivoluzionaria sarebbe nuovamente partita dall’Italia,
dov'era crollato il mito del neoguelfismo, i moderati avevano dimostrato
la loro incapacità di gestire la guerra d’indipendenza,
e si erano avuti gli esempi straordinari di Roma, Milano e Venezia.
Da sinistra si obiettava che Mazzini si limitava ad enunciazioni di
principio, senza guardare ai contenuti sociali del processo rivoluzionario,
senza capire, cioè, che solo affrontando i bisogni concreti
del popolo si potevano creare le condizioni per la vittoria sulla
reazione: Carlo Pisacane fu il più lucido in questa critica,
inserendola in una visione più ampia dell’evoluzione
del mondo moderno e dando quindi al punto di vista socialista un carattere
meno dottrinario e più aderente alla realtà; in sostanza
Pisacane sosteneva che non c’era alcun contrasto fra lotta nazionale
e lotta sociale, ma che anzi i due aspetti dovevano necessariamente
fondersi affinché il mutamento politico fosse davvero tale.
Questa corrente di pensiero, il cosiddetto socialismo risorgimentale,
non riuscì tuttavia a fornire una concreta alternativa, soprattutto
sul piano organizzativo, al programma mazziniano, che invece seppe
creare importanti rapporti con le prime società
operaie di mutuo soccorso: Mazzini sopravvalutò
enormemente la robustezza delle proprie strutture rivoluzionarie e
soprattutto non seppe cogliere i reali rapporti di forza venutisi
a creare in Italia dopo il ‘48: convinto dell’esistenza
di una situazione prerivoluzionaria, nel 1853 organizzò a Milano
un tentativo insurrezionale, che però fu immediatamente stroncato
dalla polizia austriaca.
All’inevitabile ulteriore ondata di critiche, Mazzini reagì
con un inasprimento della propria intransigenza dottrinaria (verso
sinistra rompendo del tutto coi socialisti, verso destra accentuando
la pregiudiziale repubblicana), diede ai propri comitati una rigida
struttura (Partito d’Azione) e continuò
a sostenere che l’Italia fosse un paese pronto ad esplodere
da un momento all’altro: ma i vari tentativi insurrezionali
promossi dopo il ‘53 fallirono tutti, e andò quindi a
rafforzarsi quella corrente democratica che riteneva politicamente
indispensabile trovare qualche accordo con la monarchia sabauda: ne
erano convinti gli stessi Garibaldi e Manin, che nel 1857 costituirono
la Società Nazionale, con lo scopo di spingere Vittorio Emanuele
e Cavour ad assumersi in prima persona la responsabilità di
guidare la causa dell’indipendenza nazionale. Di fronte a questa
iniziativa vi fu un riavvicinamento tattico tra Mazzini e Pisacane,
che elaborarono un’azione insurrezionale coordinata fra Italia
meridionale e settentrionale: nel giugno ‘57 Pisacane sbarcò
con trecento uomini a Sapri (Salerno), ma l’atteso
appoggio popolare non vi fu, anzi le autorità borboniche convinsero
i contadini che si trattava di una banda di malfattori, e così
i patrioti furono dispersi e uccisi; analogamente fallirono i tentativi
di Genova e Livorno. Si è molto detto della spedizione di Sapri
e dell’impossibilità della sua riuscita, ma ciò
non toglie che Pisacane rimane comunque uno degli uomini che in quel
periodo ha meglio analizzato il rapporto masse - rivoluzione, struttura
sociale - indipendenza nazionale, e la sua fine è dovuta probabilmente
alla volontà di lasciare un segno morale, una testimonianza
simbolica.
Mentre la politica mazziniana era in evidenti difficoltà, il
Piemonte andava rapidamente assumendo il ruolo che molti auspicavano,
quello di motore e di guida dell’unità nazionale: ciò
in buona misura fu dovuto alla solidità politica di questo
Stato, basata sul mantenimento dell’ordine costituzionale, sul
rafforzamento delle sue strutture economiche, sulla capacità
di presenza nella scena internazionale.
A tutto ciò concorsero certamente figure di primo piano della
cultura italiana, e in particolare il gruppo di esuli napoletani che
faceva capo al letterato Francesco De Sanctis e al
filosofo Betrando Spaventa, ma è senz’altro
merito di Cavour l’aver impostato una politica di ampio respiro
per uno Stato che rimaneva pur sempre una potenza di seconda grandezza:
il grande contributo di Cavour sta appunto nell’essere riuscito
a sprovincializzare il Piemonte, facendogli superare
la tradizionale visione municipalistica e allargando la sua sfera
d’interesse ben oltre il ristretto ambito regionale; del resto
era esattamente questa la direzione verso cui guardava la nuova generazione
di imprenditori, aperti all’innovazione, soprattutto nella siderurgia
e nella meccanica legate allo sviluppo della rete ferroviaria, e decisi
a inserirsi attivamente sui mercati internazionali. E fu proprio alla
politica estera che Cavour dedicò una speciale attenzione:
l’orientamento antiaustriaco era inevitabile, se il regno di
Sardegna voleva diventare il polo di attrazione dell’unità,
e Cavour seppe cogliere brillantemente l’occasione per sfruttare
le tensioni fra le grandi potenze e inserire dinamicamente il Piemonte
nel gioco diplomatico ad alto livello.
Nel 1853 lo zar Nicola I occupò alcuni territori balcanici
sotto il dominio turco, e Francia e Inghilterra, preoccupate dall’espansionismo
russo, si schierarono a fianco della Turchia, invitando le altre nazioni
europee a fare altrettanto; la guerra si svolse in Crimea e mentre l’Austria esitava, temendo che il Piemonte potesse
approfittarne per riaprire le ostilità sul territorio italiano,
Cavour inviò (1855) un corpo di spedizione di 15.000 uomini
comandati dal generale La Marmora e poté inserire il regno
di Sardegna fra le potenze vincitrici: ciò gli consentì
di porre con forza sulla scena europea lo squilibrio politico, rispetto
allo stesso Congresso di Vienna, provocato dalla presenza di truppe
austriache nello Stato pontificio: Inghilterra e Francia appoggiarono
questa posizione e il fatto che l’Austria restasse politicamente
isolata fu esattamente il risultato che si era prefisso Cavour, il
quale per l’opinione pubblica italiana divenne il capofila della
lotta per l’indipendenza.
Mentre allacciava rapporti sempre più stretti con la Società
nazionale di Garibaldi e Manin, anche per isolare il movimento repubblicano,
Cavour intesseva una complessa trattativa diplomatica con la Francia,
immaginandola come il migliore alleato in vista di una futura guerra
con l’Austria; il piano sembrò naufragare quando il repubblicano
Felice Orsini compì un attentato, peraltro fallito, contro
Napoleone III, nella speranza che la morte dell’imperatore avrebbe
suscitato la ripresa repubblicana, ma Cavour seppe addirittura rovesciare
a proprio vantaggio l’episodio, convincendo Napoleone ad affrettare
i tempi dell’alleanza proprio per scongiurare l’eventualità
di altre iniziative rivoluzionarie.
A scanso di equivoci Cavour adottò varie misure repressive
contro i democratici e accusò pubblicamente i mazziniani di
praticare la “teoria del pugnale”; Mazzini, che
comunque era estraneo all’attentato, replicò con sdegno
a questo evidente cinismo cavouriano, ma intanto il primo ministro
piemontese aveva raggiunto lo scopo: nel luglio 1858 firmò
con Napoleone l’accordo di Plombières,
in base al quale venivano fissati gli obiettivi comuni da perseguire
con la guerra all’Austria: creazione di un regno dell’Alta
Italia, con l’annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, e
di uno dell’Italia centrale; ridimensionamento dello Stato pontificio
a Roma e ai territori circostanti; integrità territoriale del
regno delle Due Sicilie; cessione alla Francia della Savoia e di Nizza.
La seconda guerra d’indipendenza scoppiò
nell’aprile del 1859, e alle truppe regolari si affiancò
un gruppo di volontari, i Cacciatori delle Alpi,
guidati da Garibaldi: a Magenta e a Palestro i franco-piemontesi ottennero
delle vittorie immediate e decisive, in parte bilanciate dallo scontro
terribile di Solferino [fu proprio assistendo a questa
atroce battaglia che Henry Dunant concepì l'idea di creare
una struttura per l'assistenza dei feriti in guerra, la Croce
Rossa] e Napoleone, temendo che la Prussia scendesse a fianco
dell’Austria, propose un armistizio: questo fu firmato a Villafranca e prevedeva solo l’annessione al Piemonte di una parte della
Lombardia e il ripristino dell’ordine nei territori (Toscana,
Ducati, Stato pontificio) che si erano ribellati. Vittorio Emanuele
II accettò di buon grado queste condizioni, ma Cavour rifiutò
un compromesso che di fatto svuotava tutto il suo progetto e rassegnò
le dimissioni.
La delusione per questa vergognosa soluzione diplomatica (che violava
apertamente l’accordo di Plombières) non fu però
sufficiente a liquidare l’entusiasmo dei patrioti italiani per
quella che sembrava la svolta decisiva verso l’indipendenza,
e, superando i dissidi interni, la Società nazionale e i mazziniani
diedero il via all’insurrezione della Toscana:
il granduca Leopoldo dovette fuggire e a Firenze si formò un
governo provvisorio presieduto da Bettino Ricasoli; alcune settimane
prima le truppe austriache di stanza nei ducati di Modena
e di Parma e in Emilia Romagna erano state ritirate
da quei territori per essere impegnate sul fronte, e quindi le manifestazioni
e le rivolte non incontrarono ostacoli e portarono alla creazione
di governi rivoluzionari; nelle Marche e nell’Umbria, invece,
le truppe pontificie riuscirono a soffocare l’insurrezione.
Questi avvenimenti erano esattamente ciò che l’armistizio
di Villafranca voleva evitare, e, malgrado la grande prudenza del
governo piemontese e l’evidente ostilità di Napoleone,
i governi provvisori si prepararono alla resistenza, creando un esercito
unificato al comando di Manfredo Fanti, che aveva come vice Garibaldi;
la situazione sembrava doversi risolvere drammaticamente, quando (gennaio
1860) Cavour venne nuovamente chiamato a dirigere il governo: la sua
iniziativa diplomatica puntò a un compromesso tra i rischi
di restaurazione e l’allargamento della rivoluzione, e a fronte
della cessione di Nizza e della Savoia ottenne il consenso di Napoleone all’annessione delle regioni
dell’Italia centrale, che nel plebiscito del
marzo 1860 votarono a larghissima maggioranza per questa soluzione.
Il processo di unità si era dunque bruscamente interrotto,
ma ormai le forze democratiche non erano più disperse e minoritarie,
e potevano anzi far valere a buon diritto il ruolo avuto nello scontro
con l’Austria: il cammino verso l’unità non avrebbe
tardato
Francesco II, da poco succeduto al padre sul trono, non sembrò
dar segni di voler uscire dall’immobilismo tipico del regno
di Napoli, malgrado il crescente malcontento delle masse contadine
per le condizioni di miseria in cui si trovavano: era una situazione
di crisi insanabile, ma le forze moderate che avevano gestito il movimento
unitario si muovevano con grande cautela, visti i ristretti margini
di manovra consentiti dal quadro diplomatico europeo; la prospettiva
rivoluzionaria riprendeva dunque una propria concretezza e su di essa
ritrovarono unità d’intenti sia i mazziniani del partito
d’Azione che gli aderenti alla Società nazionale. Prese
forma rapidamente il progetto di una spedizione militare, con Garibaldi
come comandante, in Sicilia, dove maggiore era il contrasto fra governo
borbonico e popolazione, e Cavour scelse una linea di attesa, consapevole
di non poter appoggiare apertamente l’iniziativa ma di non poterla
nemmeno impedire, visto il vasto consenso popolare acquisito dai democratici.
Agli inizi di maggio del 1860 da Quarto, vicino a
Genova, un migliaio di volontari male armati, in parte provenienti
dalle regioni del nord in parte esuli meridionali, partirono su due
navi in direzione della Sicilia ( Da
Quarto al Volturno, di C. G. Abba, è l'interessante
ricostruzione della spedizione): sbarcato a Marsala senza incontrare resistenza, Garibaldi emanò un decreto in
cui assumeva la dittatura dell’isola “ in
nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”, e in poche
settimane travolse l’esercito borbonico, battendolo a Calatafimi,
entrando trionfalmente a Palermo e ottenendo la vittoria decisiva
a Milazzo. Il governo provvisorio presieduto da Francesco Crispi,
futuro primo ministro italiano, fu in realtà assai prudente,
e si guardò bene dal prendere provvedimenti analoghi a quelli
adottati a suo tempo dalla repubblica romana, anzi, di fronte ai movimenti
che reclamavano la riforma agraria, non esitò ad agire con
estrema durezza: nel paese di Bronte, dove i contadini
avevano occupato le terre dei latifondisti, Nino Bixio,
vicecomandante dei garibaldini, comandò di persona la violenta
repressione. Un episodio emblematico della contraddizione
di fondo del processo unitario: si andava formando un’entità
nazionale basata più sui principi politici che sulla loro concreta
attuazione, e gli interessi della borghesia agraria e industriale
prevalevano nettamente sulle esigenze di riforma sociale e di riequilibrio
delle condizioni economiche.
Sbarcate in Calabria, le truppe di Garibaldi furono accolte con entusiasmo
dalle popolazioni e riuscirono rapidamente ad avere la meglio su un
esercito borbonico demotivato e privo di una guida adeguata: con l’occupazione
di Napoli e con la battaglia sul Volturno, nell’ottobre, il regno delle Due Sicilie non esisteva più.
Le forze democratiche vedevano dunque confermate le loro previsioni
e si andava nettamente rafforzando, anche nei settori moderati dell’opinione
pubblica, l’idea che l’unità italiana dovesse comprendere
senz’altro tutte le regioni della penisola, compresa Roma, e
che l’obiettivo era ormai a portata di mano; l’iniziativa
politica era ormai tutta a vantaggio dei democratici, e Cavour dovette
intervenire con decisione per non essere tagliato fuori: convinse
Napoleone che occorreva evitare uno sbocco rivoluzionario generalizzato
e che per far ciò era indispensabile attivare immediatamente
un contrappeso politico-militare; le truppe piemontesi del generale
Fanti occuparono le Marche e l’Umbria, battendo l’esercito
pontificio, e lo stesso Vittorio Emanuele prese poi il comando delle
operazioni, dirigendosi verso il confine napoletano e incontrando
Garibaldi a Teano. Ancora una volta Cavour aveva visto giusto e il
tempestivo intervento dell’esercito regolare aveva di fatto
tolto ai democratici la possibilità di proseguire la rivoluzione
democratica o comunque di influenzare in senso antimoderato il processo
unitario: con una procedura già collaudata, fu attuata l’ annessione di Marche, Umbria e Due Sicilie al Piemonte, l’esercito garibaldino
venne sollecitamente smantellato, il controllo politico e amministrativo
sui nuovi territori fu assunto direttamente dai funzionari piemontesi
e Garibaldi se ne tornò nella sua Caprera.
Liquidata l’ultima resistenza borbonica a Gaeta, nel febbraio
1861, il processo unitario si era dunque concluso sotto l’egemonia
moderata e il nuovo Stato nasceva all’insegna della salda alleanza
fra borghesia liberale del nord e agrari conservatori del sud. A metà
febbraio si riunì a Torino il primo parlamento nazionale, che
ratificò l’unificazione e il 17 marzo 1861, due mesi
prima della morte di Cavour, fu proclamato il regno
d’Italia.
DAL
LIBERALISMO ALLA COMUNE
La borghesia europea
aveva definitivamente abbandonato qualsiasi velleità rivoluzionaria,
scegliendo al tempo stesso il principio della sovranità nazionale
come base dell’evoluzione politica e dello sviluppo economico:
era l’espansione stessa del capitalismo che richiedeva la rottura
coi vecchi equilibri feudali, ma questa svolta liberale avvenne in modo
diverso nei vari paesi.
Se in Italia nazionalismo e libertà avevano in qualche modo trovato
una loro armonia, in Germania l’unificazione si realizzò,
al contrario, con la sconfitta dei liberali. A guidare il percorso unitario
fu la Prussia, cioè il paese che era diventato
il primo produttore europeo di carbone (nelle regioni
della Ruhr e della Slesia) e di acciaio, e che per la sua forza industriale
aveva saldamente in mano l’economia della regione tedesca, anche
tramite l’unione doganale ( Zollverein)
da essa stessa impostata; alle ragioni ideali dell’unificazione,
di cui già si erano fatti portatori gli intellettuali, si vennero
quindi ad aggiungere i motivi assai più concreti della borghesia
imprenditoriale: diversi, però, erano i modi per raggiungere
l’obiettivo, perché i liberali ritenevano indispensabile
disegnare un quadro costituzionale e parlamentare, mentre l’aristocrazia
prussiana - anch’essa, con gli Junker, impegnata direttamente
nelle attività agricole e industriali - non intendeva perdere
la propria posizione preminente e vedeva il processo come affermazione
del primato della monarchia di Prussia. Il nuovo re Guglielmo I nel
1852 affidò l’incarico di cancelliere a Ottone di Bismarck,
aristocratico e conservatore, deciso fautore dell’unificazione,
che pensò subito a un forte rafforzamento militare inteso come
base dell’egemonia sugli altri Stati tedeschi e della competizione
con l’Austria; imbastì poi un’accorta politica delle
alleanze, da una parte assicurandosi la neutralità della Francia,
dall’altra accordandosi con l’Italia per attaccare l’Austria
su due fronti, con l’impegno che in caso di vittoria il Veneto
sarebbe diventato italiano: la guerra (che per l’Italia passò
alla storia come terza guerra di indipendenza) fu dichiarata
nel 1866, e iniziò con due sconfitte italiane,
a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, compensate
però nettamente dalla vittoria del fortissimo esercito prussiano
a Sadowa: il trattato di pace stabilì, oltre al passaggio del
Veneto all’Italia e allo spostamento della capitale da Torino
a Firenze, che gli Stati tedeschi del nord si sarebbero riuniti in una Confederazione Germanica presieduta da Guglielmo I,
governata dal cancelliere Bismarck, e, importante novità, con
un parlamento federale ( Reichstag) eletto a suffragio universale;
gli Stati tedeschi del sud si riunirono in una Confederazione autonoma,
ma era evidente la loro subordinazione a Bismarck, che uscì come
il trionfatore di questa politica che mescolava abilmente assolutismo
e liberalismo, supremazia prussiana e visione nazionale.
Pesanti furono le conseguenze per l’impero austriaco, che non
poté più rinviare una revisione del proprio assetto: mentre
alle varie nazionalità vennero riconosciuti alcuni elementi di
autonomia, all’ Ungheria fu riconosciuto il particolare
status di monarchia autonoma, con un proprio parlamento e una
propria capitale, fermo restando che la potenza austro-ungarica era
tenuta unita dal ruolo centrale dell’imperatore. Inevitabile che
le nazionalità minori fossero del tutto insoddisfatte: i cechi
continuavano a sperare di ricostituire il regno di Boemia, gli sloveni
volevano riunirsi in un unico Stato con serbi e croati, ma Francesco
Giuseppe fu molto cauto nelle concessioni e il problema non fu risolto,
solo rinviato. In Russia il pugno di ferro contro i
decabristi aveva ottenuto il risultato desiderato (o meglio, dilazionò
di qualche decennio la ripresa attiva di un movimento di opposizione),
e il regime si era consolidato ulteriormente in seguito alla repressione
della rivoluzione nazionalista polacca (1830-1) e, soprattutto, grazie
al fatto di essere riuscito ad evitare il contagio rivoluzionario del
‘48. Ma la situazione economica e sociale dell’impero era
sempre più pesante: le rivolte contadine avevano ripreso a diffondersi,
il mercato interno tendeva a restringersi sempre più, la bilancia
commerciale estera era in grave passivo, e si ampliavano i settori dell’imprenditoria
(e anche della media aristocrazia terriera) che reclamavano una svolta.
Dopo la sconfitta del ‘57 in Crimea, anche per la Russia si pose
il problema di una qualche riforma e il nuovo zar Alessandro II avviò
cauti mutamenti, allentando la censura e la repressione, amnistiando
molti detenuti politici; rimasero invece in esilio Alexandr Herzen e Michail Bakunin, rispettivamente il principale precursore del marxismo
russo e il grande teorico anarchico, la cui influenza contribuì
moltissimo a far crescere una nuova generazione di rivoluzionari, numericamente
più estesa e politicamente più preparata dei pur eroici
decabristi. Sul piano economico l’arretratezza russa era paurosa,
e al tradizionale immobilismo delle classi dirigenti andò lentamente
sostituendosi un’apertura agli investitori stranieri; rimaneva
però irrisolto quello che era il problema fondamentale, cioè
il permanere delle vecchie strutture feudali, alla cui base stavano
la grande proprietà terriera e la servitù.
Qualcosa di nuovo accadde quando nel 1861 lo zar fece pubblicare il
manifesto che annunciava la liberazione dei servi:
i contadini erano formalmente resi liberi nelle loro persone e ottenevano
il diritto di acquistare le terre che coltivavano, ma queste erano ridotte
alle particelle più scadenti, ed essendo enormemente sopravvalutate
i contadini s’indebitavano verso lo Stato per somme esorbitanti,
spesso superiori allo stesso reddito che avrebbero potuto ricavare dagli
appezzamenti; d’altro canto i proprietari mantenevano le proprie
rendite parassitarie e una cospicua serie di diritti feudali, in taluni
casi acquisendone addirittura di nuovi, come quello di esercitare il
diritto di proprietà sulle terre originariamente della comunità
di villaggio (il mir). Insomma, non era certo una vera riforma
agraria borghese, né tanto meno la soluzione della questione
contadina, e il mercato interno non ne ricavava alcun beneficio; e tuttavia,
viste le condizioni del paese, la riforma del 1861 (che istituiva anche
alcune limitate forme di amministrazione locale elettiva, con ciò
permettendo ai gruppi più omogenei della borghesia di organizzarsi
e di far sentire in qualche modo la propria voce) fu comunque un balzo
in avanti verso la formazione di un moderno paese capitalistico. Significativamente,
però, proprio nei giorni di pubblicazione del manifesto, lo zar
“buono” diede personalmente l’ordine di sciogliere
a fucilate una dimostrazione di protesta a Varsavia, provocando amarezza
e disillusione in tutti coloro che avevano dato credito alla volontà
riformatrice dello zar; e infatti riprese forza il movimento rivoluzionario,
orientandosi in due grandi filoni, il populismo e il
nichilismo: i populisti, richiamandosi in parte al
pensiero di Herzen e in parte alle teorie del grande scrittore Nikolaj
Cernycevskij, ritenevano che compito dell’ intelligencija fosse di mettersi “ al servizio del popolo”, dando
soprattutto ai contadini la cultura necessaria per costruire il movimento
rivoluzionario: una concezione aristocratica e astratta, ben diversa
dal rapporto intellettuali - masse poi messo a fuoco dal marxismo, ma
che pure svolse un importante ruolo nell’avvicinare i borghesi
illuminati ai problemi delle classi oppresse.
Bakunin, che aveva partecipato alla rivoluzione tedesca del ‘48
e che svolse la sua attività soprattutto in occidente (dove orientò
una corrente importante del primo socialismo, l’ anarchismo),
rovesciò la concezione populista: non è la persona colta
che deve insegnare al popolo, ma viceversa, poiché i meccanismi
dello sfruttamento sono fin troppo chiari a chi li sperimenta quotidianamente,
rivelandosi invece inaccessibili agli intellettuali; questi, casomai,
possono usare le loro conoscenze per dare una forma organica alla ribellione
spontanea, ma caotica, delle masse; per Bakunin lo scontro con il potere
non poteva avere alcuna mediazione politica ed aveva un solo scopo,
la distruzione dello Stato; alle sue posizioni estreme, che avevano
al centro l‘idea mitica di un popolo “ istintivamente
rivoluzionario” si possono ricondurre i gruppi nichilisti,
che ebbero una rapida quanto breve affermazione nel movimento rivoluzionario,
ma lasciarono tracce significative, ad esempio nell’uso dell’azione
individuale o terroristica.
In quegli anni in Inghilterra continuava, sempre sotto
l’impulso del lavoro teorico di Mill, l’azione liberale
per la riforma elettorale: il nuovo premier, il conservatore Benjamin Disraeli, fu costretto a far approvare nel 1867 una
riforma che raddoppiò il numero degli elettori, ma con grande
abilità seguì una tattica di rifiuto delle richieste politiche
popolari e di apertura verso le rivendicazioni sindacali. Un altro grande
protagonista della politica britannica fu il liberale William Gladstone,
che dopo la vittoria del proprio partito guidò il governo: egli
cercò di affrontare la questione irlandese,
cioè la drammatica condizione di un paese ancora quasi al rango
di colonia, con un’enorme massa di contadini poveri e la proprietà
terriera in mano a pochi latifondisti: la resistenza accanita degli
agrari bloccò ogni riforma, e molti irlandesi furono costretti
all’emigrazione, mentre nel paese si andava organizzando quel
movimento autonomista che vedeva nel dominio inglese la causa prima
della miseria e che sarebbe esploso qualche decennio più tardi.
Negli Stati Uniti il contrasto fra Nord industrializzato
e Sud agricolo andava rapidamente verso una frattura insanabile; la
questione della schiavitù era solo l’elemento simbolico
di un conflitto che in realtà verteva su come impostare la strategia
economica governativa e organizzare lo sviluppo politico dell’Unione:
al nord si puntava a una legislazione protezionista fra Stato e Stato
ed al rafforzamento del potere federale, mentre il sud era per il completo
liberismo economico e la più ampia autonomia dei singoli Stati,
e lo scontro si polarizzò sul concedere o meno ai nuovi Stati
la facoltà di praticare la schiavitù; con la sconfitta
del partito democratico (che aveva peraltro una forte minoranza abolizionista)
e l’elezione a presidente del repubblicano Abraham Lincoln (1861), gli Stati del sud giudicarono che non sarebbero più riusciti
a estendere la schiavitù (cioè il modello economico della
grande azienda agraria) all’ovest, e undici fra loro attuarono
la secessione, formando la Confederazione. La guerra
civile fu immediata, e il nord, che peraltro era avvantaggiato sia dalla
superiorità numerica sia da un apparato industriale assai più
robusto, soprattutto dopo aver abolito la schiavitù (1862) poté anche agitare la bandiera umanitaria e godere dell’appoggio
dell’opinione pubblica internazionale, che infatti impedì
all’ Inghilterra di aiutare i confederati; il comandante delle
truppe sudiste, il generale Robert Lee, per due anni
riuscì con straordinaria abilità a fronteggiare e addirittura
a battere l’esercito nemico, ma la sproporzione delle forze e
il blocco navale nordista sulle coste meridionali (con conseguente mancanza
di rifornimenti e l’impossibilità di scambi commerciali
che portassero denaro fresco nelle casse confederate) alla lunga furono
decisivi: con la vittoria di Gettysburg l’Unione
invertì il corso della guerra e l’abilità strategica
del generale Ulysses Grant tagliò in due, attraverso
il Mississippi, il territorio confederato; la battaglia finale di Richmond (aprile 1865) chiuse una delle guerre più sanguinose mai viste,
e la vittoria nordista diede il via a un’ulteriore accelerazione
sia dello sviluppo industriale sia della conquista del West.
Dato che gli Stati Uniti erano impegnati in queste drammatiche vicende
interne, Napoleone III approfittò della loro impossibilità
a far rispettare la dottrina Monroe e cercò in America latina
l’occasione per concretizzare le proprie ambizioni imperiali:
d’accordo con l’Austria nel 1864 inviò un corpo di
spedizione in Messico, retto dal governo progressista
di Benito Juarez, con l’idea di affidare la gestione
del potere a Massimiliano d’Asburgo; la fiera resistenza opposta
dai messicani, la fine della guerra civile al nord e la crisi europea
del 1866 indussero però Napoleone a ritirare le truppe e ad abbandonare
l’Asburgo al suo destino: sconfitto dai soldati di Juarez, Massimiliano
fu catturato e fucilato l’anno dopo.
In patria Napoleone III svolgeva la sua ambigua ma fortunata politica
fatta di potere personale e di concessioni liberali, mentre sul piano
internazionale continuava a tutti i costi nel tentativo di riportare
la Francia alla gloria di un tempo, e in quest’ottica non c’era
altra possibilità che quella dello scontro con la Prussia, in
quel momento il paese europeo più in vista. Specularmente Bismarck
vedeva in questo confronto un’ottima occasione per rafforzare
la Confederazione e completare l’unificazione tedesca, e con meticolosità
tutta prussiana si preparò alla guerra. Il pretesto fu, abbastanza
anacronisticamente, una controversia dinastica relativa al trono di
Madrid, sul quale il cancelliere tedesco propose fosse insediato un
principe Hohenzollern: la provocazione era evidente, la stampa nazionalista
francese tuonò contro il pericolo dell’accerchiamento tedesco
a nord e a sud, e Napoleone, che a differenza di Bismarck non aveva
predisposto un’efficiente macchina bellica, venne spinto al disastro:
la guerra franco-tedesca non durò lo spazio d’una estate
e il 2 settembre 1870 a Sedan un esercito di centomila
francesi fu annientato.
Il popolo insorse contro l’imperatore e lo rovesciò, e
il neocostituito governo della Terza repubblica decise
la resistenza ad oltranza: per quattro mesi Parigi sostenne l’assedio
tedesco, mentre i volontari di Garibaldi tenevano impegnati i prussiani
a sud, finché la resa fu inevitabile, costringendo la Francia
a cedere le regioni di confine dell’ Alsazia e
della Lorena, che diventarono poi motivo di profondo
rancore antitedesco. E proprio durante l’assedio Bismarck completò
il proprio trionfo: riuniti in solenne assemblea i principi tedeschi
proclamarono il re di Prussia Guglielmo I imperatore di Germania.
Mentre nei sobborghi della capitale stazionavano ancora le guarnigioni
prussiane, lo sdegno dei parigini per la disastrosa avventura bellica
e la rabbia per le conseguenze terribili dell’assedio (soprattutto
fame e disoccupazione) si trasformò in aperta rivolta: il 18
marzo 1871 un Comitato centrale rivoluzionario prese
il potere e convocò un’Assemblea costituente, mentre il
governo insediatosi a Versailles e presieduto dal moderato Thiers ritirò le truppe per evitare che fraternizzassero con gli insorti.
Alle elezioni generali dell’Assemblea municipale ( Comune
di Parigi) i socialisti conquistarono la maggioranza
e redassero un programma molto avanzato sul piano della democrazia politica
e sociale, basato sul decentramento dei poteri e sulle riforme economiche.
I tedeschi liberarono di buon grado molti prigionieri che andarono a
rinforzare le file dell’esercito di Thiers e le truppe governative
iniziarono un secondo, terribile assedio.
La resistenza, a cui si può dire che partecipò tutta la
città, fu eroica e durò due mesi, e quando i soldati di
Thiers entrarono in città dovettero ancora combattere per sette
giorni al fine di snidare tutti i rivoltosi: durante questa “ settimana
di sangue” agli oltre 20.000 parigini già
caduti si aggiunsero le migliaia di esecuzioni sommarie, e poi ancora
circa 50.000 processi e condanne.
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